7 note su territorio e indipendenza
1.
Nel dispiegarsi della crisi e nello spaziare del capitale i territori che quotidianamente viviamo sono sottomessi ad un continuo processo di scomposizione/frammentazione, riprogettazione e riorientamento: scomposizione/frammentazione nel territorio delle forme e dei rapporti di lavoro; riprogettazione degli spazi e dei tempi della vita urbana ed extraurbana, così come dei modi di consumo e di circolazione delle merci secondo le indicazioni della “nuova economia”; riorientamento del complesso delle relazioni sociali nel segno della diffusa anomia e della competitività. L’obbiettivo è quello di rendere il territorio “uno spazio ove la nuova economia compete per controllare l’ultimo chilometro tra il locale e il globale offrendo merci e servizi sempre più personalizzati”[1].
2.
La “nuova economia”, l’economia dei flussi ossia l’attuale modello di sviluppo centrato sulle nuove possibilità spazio temporali del capitale, ha progressivamente eroso e trasformato il modello di sviluppo costruito sulla centralità della fabbrica e sulle aree industriali ad alta concentrazione operaia. Ora lo spazio dell’impresa economica supera le vecchie aree industriali e si diffonde a rete sui territori del “nuovo modello di sviluppo” ridisegnando l’intreccio tra produzione e riproduzione sociale.
“La catena di produzione del valore è diventata quindi più complessa e si è allargata sul territorio. E’ diventata una ragnatela di produzione del valore”.
“L’efficienza di un territorio, delle sue infrastrutture, dei suoi servizi, delle sue stesse relazioni sociali (la fiducia tra gli attori, le competenze disponibili a livello locale), nei sistemi distrettuali è diventata un importantissimo fattore di produzione, alla stessa stregua del capitale e del lavoro.
Il territorio è l’ambiente strategico dove l’impresa seleziona le risorse che le servono per competere sia interne che esterne al ciclo produttivo.”[2]
“Reti corte” e “reti lunghe” (deterritorializzazione) diventano la nuova descrizione dei territori.
Nella visione “efficientista” della “nuova economia” i territori, svuotati dei vecchi contenuti relazionali e riadattati alle nuove esigenze della produzione e della riproduzione sociale, debbono essere in grado “di portare un valore aggiunto alla reti globali”, essere “competitivi”, sviluppare “capacità attrattiva” di capitali, diventare un nodo della rete o morire.
3.
Per il pensiero economico dominato dall’iternazionalizzazione (e delle lobby che lo rappresentano ed indirizzano) non si tratta soltanto di rifondare i territori, ma di superare il rapporto che è andato storicamente costituendosi tra territori e impresa, ossia il rapporto di identificazione con la particolare tipologia di produzione (distretto delle arance, del pomodoro, delle scarpe, del petrolio, dell’acciaio, ecc), dove l’impresa nasceva e si sviluppava sull’onda delle specializzazioni sedimentate nella storia economica territoriale. Ora, nell’epoca della delocalizzazione e della frammentazione produttiva, il rapporto tra impresa e territorio si centra essenzialmente sullo scambio: acqua, terra e cielo, pace sociale, forza lavoro a basso costo, sicurezza e adatte infrastrutture contro occupazione/lavoro. La cosa non è certo nuova, accadde così ad esempio per la grande concentrazione industriale dei poli petrolchimici (Augusta-Melili-Priolo, Gela, Milazzo), ma fu l’irruzione di questi poli a trasformare i territori circostanti (viabilità, risorse idriche, abbandono delle campagne, …), mentre ora, nella logica dello sviluppo atteso, i territori vengono pre-trattati, pre-disposti e proposti secondo le attese della “nuova economia” (ed in attesa di realizzare il nuovo valore aggiunto). E non si tratta più soltanto di qualche territorio e dei grandi gruppi industriali col loro appartato di ricatto e potere, adesso sono tutti i territori ad essere oggetto, diretto o indiretto, di queste politiche che, come nel caso dei “distretti produttivi” – i quali si rivolgono con ingenua speranza alle medie e piccole imprese internazionalizzate – sono la diretta espressione del mercato capitalistico dominato dai flussi del capitale multinazionale.
“Lo stesso tema dell’internazionalizzazione, non è più solo il problema di accompagnare le imprese all’estero, un problema di esportazione, o di IDEE; è un problema di territorio.
Anche l’artigiano che non esporta o che non fa investimenti all’estero, viene condizionato nei suoi prodotti, nei suoi metodi di produzione, nei suoi prezzi, dai competitori internazionali.
Quelle che una volta erano le politiche a sostegno dell’internazionalizzazione, devono oggi diventare politiche a sostegno della competitività transnazionale di un intero territorio: questo perché ormai non è più possibile fare una distinzione tra mercato esterno e mercato domestico”. “A mutare è il ruolo economico del territorio e la sua capacità attrattiva nel senso che l’economia dei flussi premia le differenze, e dunque le varietà locali, che sono in grado di portare un valore aggiunto alle reti globali. Quello che conta nella nuova economia è l’offerta che il territorio è in grado di proporre in termini di conoscenze, reti, e qualità ambientale”[3].
“Le imprese rimangono insediate su un territorio, o fanno nuovi investimenti su un territorio, se trovano convenienti i servizi offerti e le conoscenze accessibili attraverso il contesto locale”[4].
Affinché un territorio si trasformi in “nodo della rete” della cosiddetta economia dei flussi, il pensiero imprenditoriale individua precise circostanze che ne determinano il livello di “attrattività”. Si tratta di circostanze sviluppate all’interno dei territori come “tranquillità sociale” (ossia assenza di conflittualità, disponibilità sindacale, efficacia delle forze e dei mezzi di polizia ed una extralegalità controllata), disponibilità di “forza lavoro istruita”, servizi, adeguate infrastrutture (buona rete viaria, prossimità alle aeree portuali ed aeroportuali). In questo contesto le amministrazioni comunali, i partiti e le cosiddette “autonomie funzionali”[5] (fondazioni bancarie, ASL, camere di commercio, ecc.) giocano un ruolo strategico nelle capacità di promozione, negoziazione, predisposizione del territorio alla competitività attesa.
4.
Se è pur vero che tutto ciò fa parte dell’utopia capitale, che pretende di razionalizzare l’irrazionalità del suo modo di produzione per il profitto, è anche vero che questa logica dello “sviluppo atteso” ha comunque sui territori esiti concreti e devastanti.
Tutti i territori, anche quelli che mai potranno diventare effettivi “nodi della rete”, tendono a rimodellarsi nella sua logica. I territori sono predisposti a partire da ciò che per essi e che da essi ci si attende in produzione di valore. Così come nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro la logica del “tempo atteso” per la produzione di merci e servizi, impone ai lavoratori (capitale variabile) il tempo astratto e indifferente della media dei tempi di produzione del mercato mondiale capitalistico, la logica dello “spazio atteso” impone ai territori il modello dello spazio astratto dei flussi di capitale. Il territorio è qui pensato, piegato ed agito unicamente come spazio della nuova circolazione, distribuzione e produzione, diviene nel suo complesso fattore economico ed in quanto tale deve essere “liberato” da ogni residuo del passato modello di sviluppo, da ogni organizzazione delle relazioni sociali che lo irrigidisce non permettendone la necessaria flessibilità. Il territorio, il tessuto relazionale che lo produce, è trattato nel suo complesso come merce e come ogni altra merce ha valore in quanto valore di scambio.
5.
Queste politiche, così ben confezionate dai centri di ricerca pubblici e privati, si sono tuttavia rilevate nel loro complesso fallimentari non riuscendo a rilanciare -per come atteso– il processo di accumulazione. Ciò nondimeno hanno influenzato dall’inizio alla fine ed ancora influenzano ciò che avviene nei territori con lo strascico dei disastri che tutti conosciamo.
Ristrutturare una azienda o una fabbrica, reimpostare la sua collocazione nel mercato, imporre flessibilità, precarietà diffusa e bassi salari, è cosa ben diversa dal rimodellare un territorio la cui complessità è data dalla sedimentazione di una infinità di relazioni sociali che ne hanno determinato e ne determinano le diverse caratteristiche. Non solo, infatti, “non tutti i territori hanno lo stesso posizionamento rispetto all’economia dei flussi”[6], il che li rende più o meno appetibili, ma è da rilevare anche che non tutti i territori hanno la medesima permeabilità alle sue politiche. Ci sono territori che resistono.
Il territorio è anche il risultato di rapporti di forza e l’efficacia dei processi di rimodellazione del territorio dipendono anche da questi. Lotta di classe, livelli e qualità del lavoro, storia delle rappresentanze politiche e dei loro rapporti con le strutture centrali del potere, presenza e qualità organizzativa di movimenti cittadini, culture e colture del territorio, ecc. rappresentano le variabili di processo da cui in definitiva dipende la possibilità e l’efficacia del processo stesso in termini di realizzazione degli obiettivi prefissati.
In questo senso le “zone marginali del sistema”, i territori periferici, quelli in genere meno esposti ai dispositivi di controllo dell’economia dei flussi, “dove l’adattamento alle logiche del capitale si fa necessariamente più debole e incerto”, ma che più ne risentono in termini di generale immiserimento e di rapina dei beni comuni, rappresentano “l’anello debole” del processo e “il campo centrale dello scontro”.
6.
Scomposizione/frammentazione, riprogettazione e riorientamento dei territori e quindi delle relazioni sociali che lo costituiscono hanno prodotto un senso di diffuso spaesamento, di debolezza e di solitudine che inibisce il ricomporsi intorno a blocchi di interesse comune.
Ogni cosa, ogni relazione sembra ormai essere per il capitale, ma la massa di contraddizioni che da questo “essere per il capitale” scaturiscono possono diventare il punto di forza e il terreno di confronto tra chi nei territori ancora si muove per la costruzione di relazioni non soggiogate dalla logica del profitto e chi del profitto ne fa il suo “contenuto assoluto”.
È a partire da queste contraddizioni che si organizzano i modi della ricomposizione sociale contro le logiche del profitto.
Ricomposizione dei territori significa lotta ai processi che lo deterritorializzano, sottraendolo all’esperienza degli abitanti, significa ricreare i territori restituendo agli abitanti il ruolo di agenti ed interpreti della loro organizzazione, significa muoversi per la loro indipendenza. Le lotte territoriali devono diventare lotte di popolo per l’indipendenza.
Nel lavoro di massa sui territori – ai fini della ricomposizione sociale e dell’organizzazione delle lotte – è essenziale tenere presente che ricomposizione del proletariato e ricomposizione del territorio marciano necessariamente insieme, l’uno è il presupposto dell’altro, non si dà l’uno senza l’altro.
Così come l’interesse proletario è in definitiva quello di liberarsi dalla condizione proletaria, dal suo essere classe per il capitale, interesse del territorio è liberarsi dalla sua condizione di spazio per il capitale. In questo contesto la coscienza di classe ha oggi la necessità di costituirsi in coscienza del territorio, la lotta di classe di costruirsi in lotta per l’autodeterminazione dei territori.
Il territorio non sostituisce coscienza e lotta di classe, ma le ricolloca a partire dalla attuale situazione delle contraddizioni sociali, dagli esiti delle crisi strutturali, dai progetti dell’economia dei flussi.
7.
Riprendersi il potere di deliberare i modi della propria esistenza sui territori che abitiamo è ciò che chiamiamo indipendenza. Autodeterminazione ed autogoverno fuori dalle logiche del profitto ne rappresentano il contenuto essenziale.
Sono gli abitanti che debbono potere partecipare direttamente alle decisioni che riguardano l’economia della e per la comunità; alle decisioni che riguardano i modi e i versi del territorio urbano ed extraurbano; al riconoscimento del proprio patrimonio culturale, storico, ambientale.
Nella capacità di costruire e sperimentare queste forme di potere si struttura la prospettiva dell’autodeterminazione e dell’autogoverno.
Autodeterminazione è il modo in cui comunità non soggiogate determinano sistemi e tempi della propria esistenza in relazione ai luoghi che abitano.
Autogoverno è il modo in cui in questi luoghi queste comunità amministrano la propria esistenza.
Il principio dell’autodeterminazione dei popoli così come il principio dell’autogoverno seppur ratificati da organismi del diritto internazionale non trovano e non possono trovare alcun modo di concretizzarsi entro i confini e le forme degli Stati contemporanei. Quest’ultimi rappresentano la forma di mediazione, organizzazione e controllo dei dispositivi messi in campo dai gruppi economici che li dominano e che determinano i modelli di sviluppo interni al modo di produzione del profitto.
Autodeterminazione ed autogoverno sono possibili solo con la costruzione dell’indipendenza politica.
L’indipendenza politica si costruisce dal “basso”, definisce i suoi contenuti e le sue forme nelle diverse pratiche di autodeterminazione e di autogoverno che man mano le comunità territoriali sperimentano fuori e contro il sistema di relazioni sociali dominate dal capitale.
[1] L. Grosso, Dal capitalismo molecolare alla learning organization, 2015. Corso di economia aziendale ed organizzazione aziendale, Prof. Pierluigi Rippa, Ciclo di seminari finalizzato a sensibilizzare gli studenti universitari ad avvicinarsi al mondo del lavoro.
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Istituzioni intermedie tra lo Stato ed enti territoriali che prima della riforma amministrativa del 1997 erano demandati alle Regioni.
[6] L. Grosso, cit