Guerra per l’egemonia e ribellione sociale
«La globalizzazione moderna, il neoliberismo come sistema mondiale, deve essere intesa come una nuova guerra di conquista di territori», iniziava così un opuscolo del Subcomandante Marcos, Le sette tessere ‘ribelli’ del rompicapo globale del 1997.
Sono passati 25 anni e oggi più che mai “guerra di conquista di territori” coglie il senso della fase che stiamo attraversando. Una fase particolarmente cruenta che ha per posta in gioco l’egemonia sul processo di accumulazione capitalistica. Una tragica storia che si ripete puntualmente ad ogni crisi di fine ciclo di accumulazione. Solo che stavolta avviene in un contesto in cui – citando Rosa Luxemburg – la “lotta di concorrenza fra i capitali su scala mondiale per l’accaparramento delle residue possibilità di accumulazione” sta facendo tracollare la Terra, investendola per intero in una crisi ambientale e sociale di cui non è possibile prevedere gli esiti, ma di cui – con sempre maggior forza – si avverte la portata catastrofica.
La guerra di conquista si compone di due aspetti fondamentali: la conquista di territori da inglobare nelle reti economiche del proprio dominio; la “rimodellazione” dei territori già dominati secondo le regole della nuova economia e del blocco politico economico e militare che ne garantisce l’operatività e gode dei suoi risultati.
Ambedue questi aspetti conservano una devastante carica di distruttività e di violenza, di sfruttamento e di rapina, ciò che in sintesi costituisce ogni impresa di rilancio del processo di accumulazione. E tanto più sono esigue le possibilità concrete di rilancio dell’accumulazione tanto più devastante, tanto più cruenta è la lotta tra chi si contende il dominio di questa stessa possibilità: l’egemonia sul processo.
I due aspetti della guerra di conquista sono oggi più evidenti che mai. Il primo indossa le vesti della guerra aperta tra apparati politici economici e militari; il secondo ha le sembianze della forzata penetrazione sui territori delle nuove politiche economiche che rimodellano, riadattano o annientano i territori secondo le prospettive dei nuovi mercati e la realizzazione di profitti. Non c’è pace all’orizzonte: solo guerra. Una guerra tra Stati, tra economie in concorrenza, una guerra nel capitalismo, tra capitalisti.
Dal bipolarismo del Dopoguerra all’unipolarismo dopo la caduta del muro di Berlino, per i popoli di tutto il mondo è stato un esponenziale allargamento dello sfruttamento, dei conflitti armati e della progressiva distruzione degli ecosistemi. L’unipolarismo aveva dato nuovo spazio all’espansione dei monopoli multinazionali dando vita ad un mondo multipolare ossia un mondo multiconcorrenziale, dominato dalla moltiplicazione di imprese multinazionali che in un sol tempo estraevano risorse ed esportavano il sistema capitalistico di produzione e consumo nelle aree del mondo che direttamente o indirettamente occupavano. Un mondo multiconcorrenziale che nella crisi di transizione da un ciclo di accumulazione ad un altro ha aperto la contesa violenta per chi fra i poli concorrenti assumerà la posizione di dominio.
Nella storia del capitalismo ciò è stato sempre un avvenimento violento, ma i livelli di interdipendenza economica raggiunti nella fase del dominio economico politico e militare occidentale a guida statunitense hanno talmente ingarbugliato la matassa di interessi e ridotto la possibilità di accumulare profitti per tutti i contendenti da gettare l’intero sistema economico capitalista in quello che alcuni autori hanno chiamato “caos sistemico”. È con la guerra che il sistema degli Stati/Capitale tenta di risolvere il caos imponendo un nuovo ordine nel ciclo di accumulazione capitalistico.
La guerra russo-ucraina non è che l’ultimo anello di una lunga catena di conflitti per il mondo segnati proprio da questo processo. L’ultimo anello sul quale le manovre degli Stati/Capitale stanno costruendo il consenso delle società alla proliferazione mondiale della guerra. Un processo iniziato con la contrapposizione tra i vecchi attori della “guerra fredda” (il cosiddetto bipolarismo) e che oggi riprende dopo i “fasti” della globalizzazione con la cooptazione da una parte e dall’altra dei nuovi attori del capitalismo mondiale.
Il mondo degli Stati va schierandosi e vuole che i popoli su cui estendono la loro sovranità partecipino allo schieramento. Ed è mobilitazione generale. Destre e sinistre coadiuvati dai più spregevoli “opinionisti” lavorano alla polarizzazione tra contendenti, tra stati aggressori e stati aggrediti, tra “putinismo” e “civiltà occidentale”, distogliendo l’attenzione dal sistema Stato/Capitale: il vero generatore dello sfruttamento illimitato e delle guerre per garantirsene l’egemonia.
Lo Stato/Capitale lavora al posizionamento della società: “lasciamo stare il perché e il come degli avvenimenti, adesso dobbiamo scegliere tra democrazia e dittatura, tra aggrediti e aggressori”. È un trascinarci nella logica geopolitica degli Stati/Capitale. La costruzione del complice acefalo. Lasciarsi trascinare in questa trappola vuol dire mobilitarsi per la loro guerra, per i loro interessi. Gli appelli alla pace, alla fine delle ostilità, al buon senso, non sono che appelli al vento in un sistema mondiale la cui logica e il cui senso assoluto è il profitto.
Oggi più che mai la ribellione sociale ha la necessità di progettare, costruire e organizzare l’indipendenza da queste logiche, di liberarsi dalle dipendenze politiche ed economiche fabbricate da questo sistema. Sottrarsi, disertare, sabotare questo sistema è l’unica soluzione politica alle contraddizioni esplosive e allo stato di catastrofe permanente cui le formazioni sociali capitalistiche e gli Stati che ne sono espressione hanno condotto il pianeta.
Se per gli Stati/Capitale è il tempo della guerra dispiegata, per i popoli di tutto il mondo è il tempo di pensare a società senza Stato, territori indipendenti capaci di porsi fuori dalle dinamiche politiche della competizione interstatale, dalle dinamiche della produzione e del consumo segnate dal capitalismo.
Contro le guerre degli Stati/Capitale occorre organizzare l’indipendenza dei territori.