Repressione come metodo di governo, lotta come strumento di liberazione
In vista delle mobilitazioni contro la repressione di sabato 22 aprile, un’analisi del ruolo repressivo del governo Meloni nel quadro europeo di imminente recessione economica e di sudditanza alla Nato.
Verso uno scenario di guerra permanente
E’ di mercoledì 19 aprile la notizia, riportata dal sito Itamilradar, dell’arrivo alle basi militari italiane di Ghedi e Aviano di un Globemaster III Boeing C-17A Usaf, l’unico cargo equipaggiato per il trasporto di testate nucleari. Gli ordigni atomici sotto l’esclusivo controllo di Washington in Italia ammontano già a un centinaio circa di bombe atomiche da 50 kilotoni, nell’ambito del programma di deterrenza e difesa nucleare condiviso dagli stati membri.
Che la Nato stia rinnovando l’arsenale nucleare, in vista di quello che si dispiega sempre più chiaramente come uno scenario di guerra permanente ad intensità differenti, non sorprende affatto. Anzi, la reiterata retorica atlantista di Meloni, Mattarella e delle altre compagini parlamentari in gioco, conferma quanto lo Stato-nazione italiano necessiti di affermare se stesso tramite un massiccio investimento politico-economico attorno all’apparato militare e della difesa. La normalizzazione della presenza di soldati e reparti armati (vedi PCTO nelle caserme di cui avevamo parlato qui) avviene con modalità differenti. A volte è inserita nelle pieghe della quotidianità senza che sia palese immediatamente la sua funzione di dominio, con l’utilizzo mistificatorio del tema della sicurezza e dell’introiettamento individuale della necessità di protezione e difesa – ma sicurezza per chi? difesa di chi?
Altre volte invece si intreccia indissolubilmente alle finalità poliziesche della deterrenza e del controllo sociale.
Governo Meloni, governo di repressione
In questo senso, la funzione principale del governo Meloni, inserito in un quadro europeo di imminente recessione economica e di sudditanza alla Nato, è quella di mantenere la stabilità sociale tramite la repressione, sovrapponendo sempre più le necessità dell’apparato statale con quelle dell’elettorato – riassorbendo insomma le eccedenze, su tutti i fronti. Esasperando ogni questione sotto la lente della sicurezza e della difesa, la si innalza a pericolo per la nazione italiana e quindi a occasione di ulteriore repressione.
Ribaltando il dissenso alle politiche guerrafondaie, razziste e di sfruttamento del governo a tutela del capitale a questione di delinquenza, che rappresenta una minaccia per tutti. E così la spettacolare sineddoche del discorso politico dello Stato trasforma il ponte sullo stretto in mezzo di unità nazionale, “un diritto degli italiani” secondo Salvini. Così vengono smantellate le occupazioni abitative, con un imponente piano di sgomberi e sfratti, per tutelare la parte produttiva del Paese, quella che “paga le tasse”. Così il sempre più frequente ricorso all’accanimento giudiziario, dal decreto anti-rave, che di fatto vieta gli assembramenti di più di 50 persone, all’applicazione del regime carcerario del 41bis ad Alfredo Cospito. Dall’accusa di associazione a delinquere da parte della procura di Padova per gli attivisti di Ultima Generazione, al DDL sull’imbrattamento firmato dal ministro della cultura Sangiuliano che prevede reclusione e multe per chi danneggia o deturpa i beni culturali, fino al divieto di avvicinamento ad aree di interesse monumentale – un vero e proprio daspo urbano. Sperimentazioni e avanzamenti nello sdoganare la normalità della pena e del pugno duro.
Lottare come strumento di liberazione
L’esecutivo di Meloni si pone allora a difesa della sicurezza dello Stato e dei suoi burocrati, funzionari, decisori, obiettivo che nella pratica è perfettamente in linea con l’operato dei precedenti governi, tramite l’assunto che frapporsi alla volontà e alla persecuzione degli scopi della classe politica attuale sia in fondo solo un problema di ordine pubblico. Ma la repressione agisce già in modo sistematico e continuativo, all’interno dei confini dello Stato. Agisce quando avvengono gli incidenti sul lavoro, quando si è costretti a emigrare in cerca di futuro fuori dal proprio territorio, quando vengono negate le cure mediche pubbliche per carenza di medici e per infinite liste d’attesa. La repressione è l’imposizione della volontà del mercato su un territorio, nel suo sfruttamento e nella coercizione, nel subire le scelte e le decisioni dall’alto contro l’autodeterminazione dei popoli.
Riprendere parola e decisionalità, ricostruire nella comunità una linea di demarcazione che frapponga il noi e il loro, contrapporre alla repressione come metodo la liberazione dei territori tramite la lotta, è la necessità del nostro presente.