Organizzarsi fuori dallo Stato è delinquere? Intervista sul Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio

Organizzarsi fuori dallo Stato è delinquere? Intervista sul Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio
Il 13 dicembre del 2018 il Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio, attivo nell’omonimo quartiere di Milano, viene accusato di essere un’associazione a delinquere finalizzata all’occupazione e alla resistenza. Oltre al capo d’imputazione principale, sono altri 49 i reati contestati e che questa “associazione delinquere” avrebbe commesso. Si scoprirà poi che i componenti del comitato erano sotto indagine con intercettazioni, pedinamenti e monitoraggio continuo già da tre anni. Un gran lavoro, quindi, da parte del nucleo informativo dei Carabinieri di Milano che nel dicembre 2018 porterà all’emissione di numerose misure cautelari, sotto forma di arresti domiciliari e obblighi di firma, e ad un lungo processo durato fino a questi giorni.
Il processo inizialmente ha visto confermarsi l’ipotesi dell’associazione a delinquere, condannando in primo grado gli imputati e le imputate ad un totale di 25 anni di carcere. Pochi giorni prima della pubblicazione di questa intervista, in secondo grado di giudizio, è finalmente caduto l’impianto accusatorio dell’associazione a delinquere, così come la maggior parte dei reati specifici di cui erano accusati gli imputati, riducendo tutto a sparuti reati minori.
Un castello di carta costruito ad arte da carabinieri, pubblici ministeri e giudici, che mirava a criminalizzare e distruggere un processo collettivo che aveva iniziato a costruire un modello alternativo di vita e di organizzazione delle comunità e dei territori, strutturalmente in antitesi alle forme mortifere di isolamento e devastazione della modernità capitalista.
In questa intervista ricostruiamo la vicenda, insieme ad alcuni imputati\e. L’intervista è pensata per comprendere meglio cosa è stato messo realmente sotto accusa del Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio, e come diverse organizzazioni dello Stato hanno guardato a questa esperienza di autorganizzazione.


Cosa aveva costruito in quei tre anni il Comitato abitanti Giambellino-Lorenteggio per costituire tale interesse per lo Stato e cosa, invece, secondo l’accusa giustificava tale impianto?

Il Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio era, inizialmente, un comitato di lotta per la casa, che era nato nell’autunno del 2014 nel quartiere di Giambellino, che è uno dei quartieri di periferia più poveri di Milano e dove si sente di più l’emergenza abitativa.  Un quartiere di periferia con tante centinaia di case ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale, ndr), quindi case di edilizia residenziale pubblica lasciate sfitte, abbandonate, completamente vuote, lamierate, che l’ALER non assegna; ed è essendo uno dei quartieri più poveri, dove l’emergenza sociale sull’abitare è più forte, e a Milano questa è una questione ancora particolarmente forte, è un quartiere anche con tante occupazioni di case.

In questo ambito nasce quindi il Comitato degli abitanti di Giambellino-Lorenteggio, un comitato di lotta che non ha mai fatto distinzione tra gli inquilini cosiddetti irregolari e gli occupanti, un comitato di lotta per la casa che si opponeva agli sfratti, agli sgomberi ed anche alla criminalizzazione dell’occupazione perché riteneva che l’occupazione fosse la risposta a un’emergenza sociale.

Questo comitato, poi, nel corso degli anni, radicandosi, era cresciuto ed era diventato di fatto una piccola collettività, una piccola comunità di lotta. Aveva costruito una mensa sociale nel quartiere dove si poteva mangiare a poco, per fare pranzi e cene tutti insieme, aveva costruito un doposcuola per bambini (che molto spesso venivano da famiglie che non parlano bene la lingua italiana), una scuola di italiano per stranieri, un ambulatorio popolare sul modello, ben più strutturato, di quello in via dei Transiti, una squadra di calcio e ricavato spazi dove si tenevano tanti momenti di festa e di socialità. Era diventata una piccola comunità di lotta che, continuando a portare avanti la lotta per la casa, provava ad abitare in modo diverso quel pezzetto di città, di metropoli.

Tutto questo per l’accusa era un’associazione a delinquere.

Nonostante per l’accusa stessa, come in quei giorni fu costretta ad ammettere, non c’era in alcun modo fine di lucro, nessuno si era arricchito, non giravano soldi, secondo il parere della procura l’associazione c’era nella volontà di organizzarsi e di occupare le case, fondamentalmente riscontrata tramite le intercettazioni ed i pedinamenti, sostanzialmente con la volontà di sostituirsi allo Stato e distorcere o ottenere consenso all’interno della popolazione del quartiere.

Come funzionava il Comitato abitanti Giambellino-Lorenteggio e che rapporto aveva col territorio?

Come ho detto era una piccola realtà composita, composta da italiani e stranieri. Giambellino è un quartiere con tante migrazioni ed è un quartiere estremamente variegato nella sua composizione e il Comitato un po’ rifletteva questa cosa. Nel Comitato c’erano tanti sud americani di vari paesi (Perù, Equador, Colombia), etiopi, nordafricani, marocchini ed egiziani, della comunità rom, molto presente in Giambellino, e poi, ovviamente, italiani.

Era un comitato di quartiere che aveva un suo appuntamento settimanale per discutere sia le iniziative di lotta ma anche tutto quello che riguardava le attività che si portavano avanti nel corso della settimana.
Negli ultimi anni soprattutto, eravamo riusciti a dare una cadenza settimanale ai pranzi della mensa quindi c’era chi si occupava della mensa e si mangiava tutti insieme.
Con cadenza più irregolare c’erano dei momenti di socialità, di festa per il quartiere e  un giorno a settimana il doposcuola.

Aveva le sue attività fisse che si tenevano alla Base di solidarietà popolare, che, se non mi sbaglio, erano degli ex-uffici ASL, di proprietà dell’ALER, anch’essi lasciati vuoti, in via Manzano 4, in un palazzo che adesso non c’è più perché abbattuto nell’ambito di lavori di “riqualificazione”.
E poi c’era tutta una parte più organizzata, di vita comune nel quartiere, per cui ci si conosceva, ci si incontrava, si stava insieme, si discuteva insieme di quello che stava succedendo e anche, ovviamente, di cosa succedeva con gli sgomberi.
Mentre per gli sfratti, in Italia, bisogna ricevere un avviso, non è così per gli sgomberi, il che portava a momenti di lotta ma anche di aiuto e muto soccorso verso a chi era stato sgomberato.

All’interno del costrutto dell’Associazione a delinquere troviamo oltre quaranta capi d’accusa, tra cui trova ampio spazio il reato di Resistenza a Pubblico Ufficiale; come è stato utilizzato per criminalizzare le lotte?

La questione del “reato di resistenza” è particolarmente interessante, nonostante quella formulazione sia poi caduta qualche giorno fa in appello. Rimane però interessante vedere come sia stato utilizzato.

La resistenza era uno dei reati fine dell’Associazione, quindi l’accusa era che l’Associazione si fosse costituita per compiere questa resistenza agli sgomberi ed era particolarmente significativo l’utilizzo di questo reato perché in buona sostanza le resistenze nascevano, a parere della Procura, dalle cosiddette minacce implicite.

Faccio un esempio: se ci sono dei poliziotti che dovrebbero portare a termine, ad esempio, uno sgombero, e trovano sotto la casa che dovrebbero sgomberare delle persone e queste persone in qualche modo sono lì per manifestare il loro dissenso, per protestare etc… la tesi dell’accusa è che la sola presenza di queste persone poteva costituire implicitamente una minaccia per gli agenti di polizia. Quindi integrava il reato di resistenza, essendo gli agenti minacciati nel loro operato dalla sola presenza.

Oltre ogni valutazione politica più ampia che possiamo fare su che cosa significa resistere,  la nostra tesi difensiva in tribunale, accolta adesso in appello, era proprio che il reato di resistenza non può essere dato indiscriminatamente a tutte le persone solo per il fatto di essere presenti e quindi solidali. In quanto non veniva, sostanzialmente, indicata la condotta di nessuno ma era il solo fatto di essere lì che integrava il reato di resistenza; ed è ciò che la procura ha utilizzato per costruire le basi di una associazione a delinquere.

A fronte della criminalizzazione del Comitato abitanti Giambellino, ne è nata una campagna di solidarietà. Che risposta si è avuta fuori e dentro Milano? Se c’è stato chi non ha espresso solidarietà, su quali posizioni?

Solidarietà ce n’è stata tanta, sia nei momenti successivi all’arresto, circa sei anni fa, sia nel corso di questa ormai, possiamo dirlo, molto lunga battaglia processuale che è durata sei anni. Fuori da Milano la solidarietà c’è sempre stata da parte di altre collettività e realtà, anche non italiane. Abbiamo sentito un grosso calore e abbiamo percepito la consapevolezza, da parte di tutti, che questo processo qui, che fortunatamente è finito molto bene, non riguardava solo noi, ma un modo di organizzarsi e di lottare. Era importante non solo per noi, ma per le lotte in generale, che non si stabilisse questo precedente, che questa costruzione venisse a cadere.

All’interno della città, invece, la solidarietà c’è stata soprattutto da parte di chi ci aveva conosciuto direttamente, chi aveva avuto modo di vedere cos’era il Comitato e sapeva cosa eravamo davvero e quindi non era caduto nel gioco dell’accusa.

Chi non aveva avuto una conoscenza diretta, qua non parlo ovviamente di compagni\e, ma di abitanti di Milano, spesso, non sempre, ma spesso, si è attestato un po’ su quella linea  legalitaria per cui le rivendicazioni potevano essere anche giuste, ma nel momento in cui si violava la legge si passava dalla parte del torto.

Noi questo l’abbiamo messo in chiaro in tutti i modi, sia dentro che fuori dal tribunale: per noi il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato non coincide con il confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è.

Oltre le limitazioni imposte dalle misure cautelari, come ha inciso l’impianto repressivo a livello personale e collettivo?

A distanza di sei anni e con il processo concluso direi davvero nel migliore dei modi, possiamo dirci che questa repressione ha avuto l’effetto, comunque, di riuscire a tagliare le gambe al Comitato.
Il Comitato adesso non esiste più, non è riuscito a riprendersi, diciamo così, dalla botta che sono stati gli arresti.
Gli arresti, l’operazione, ha spaventato tantissimo gli abitanti, tutte le persone che facevano parte di questa collettività. E quindi questo è probabilmente il dato più amaro e più brutto e, visto com’è andato il processo, l’unico risultato che i carabinieri o la procura sono riusciti a portarsi a casa. La repressione ha sicuramente tagliato le gambe proprio perché ha messo un’enorme paura, perché nessuno degli abitanti e in generale era, come è normale che sia, pronto ad affrontare un processo per un’associazione a delinquere. Ha quindi inciso molto la volontà di spaventare e distruggere questa esperienza di lotta.

Il 6 dicembre, c’è stata la sentenza in Appello, di una vicenda che va avanti da 6 anni.
Come commentate questa sentenza? Valutazioni?

È andata molto bene. Colgo l’occasione per spiegare che la sentenza in appello ha demolito tutto l’impianto accusatorio, siamo stati assolti da tutto, non solo dalle associazioni ma anche dalla quasi totalità delle resistenze e in sostanza sono rimaste solo alcune occupazioni. Quindi, oltre una rideterminazione fortissima delle pene che sono scese vertiginosamente, in generale è stata accolta tutta la nostra linea di difesa; per questo l’appello è andato molto bene e speriamo abbia definitivamente messo la parola fine, dopo tanto tempo, a questo enorme apparato giuridico repressivo che si è mobilitato contro di noi.

Sull’esperienza del comitato, in generale, io credo, ma come valutazione personale, che ci siano stati tanti errori, sicuramente anche da parte nostra, sia prima che dopo. Non ovviamente nel senso legale del termine giuridico, ma sicuramente c’erano tante cose alle quali avremmo potuto reagire diversamente, sulle quali ci saremmo potuti organizzare diversamente. Però in buona sostanza credo che alla fine siamo contenti che comunque sia finita così, che una piccola parte della verità sia riuscita ad emergere, sia pure in quel luogo che non è mai un luogo della verità come un tribunale. Il bilancio che ci portiamo a casa è quello di un’esperienza di lotta che è durata del tempo, che ha fatto delle cose belle, ha avuto anche, come tutte le esperienze di lotta, delle sue cadute, ma che sicuramente ha potuto insegnare tanto.

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