Contro il regionalismo differenziato, ovvero: contro il golpe dei ricchi.
Il 27 settembre 1796 l’Amministrazione generale della Lombardia bandì un pubblico concorso sul tema «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia». Non è ben chiaro se l’idea del concorso fosse di Napoleone Bonaparte, ma i patrioti intendevano «aprire agli ingegni una vasta carriera, in cui trattando i grandi interessi dell’intera nazione, rendino famigliari al popolo gli eterni principi della Libertà ed Eguaglianza, gli facciano conoscere l’estensione de’ suoi diritti, la facilità di rivendicarli, e gli possono a un tempo stesso indicare gli scogli in cui può inciampare chi passa dal servaggio alla libertà». Arrivarono cinquantasette dissertazioni, di diversa provenienza geografica – come del fiorentino Giovanni Ristori e del cremonese Giuseppe Faraoni e chi voleva una repubblica democratica al Nord e una “aristodemocratica” al Sud – ma tutte rivolte all’Italia intera, compresa quella ancora “sotto il giogo dei tiranni”, in un ampio progetto di riorganizzazione dell’Italia, una “rigenerazione” etica, culturale, sociale, religiosa della società italiana. Vinse, e il premio di duecento zecchini, Melchiorre Gioia, che svolse il suo ragionamento così: «L’Italia sarà ella al massimo grado di felicità spezzandosi in repubbliche isolate e indipendenti? L’idea di divisione è congiunta all’idea di debolezza: la diversità d’interessi chiama al pensiero l’immagine della discordia». La felicità stava insomma tutta nell’idea di un unico Stato.
«Noi, o signori, siamo tutti concordi sovra due punti, se mi è lecito dir così, negativi. Non vogliamo la centralità francese. Per quanto siano grandi i privilegi della centralità, per quanto vi sia oggi in Europa incontrastabilmente una tendenza verso di essa, nondimeno, tali sono gli inconvenienti che generalmente seco adduce, e che recherebbe più specialmente in Italia, che io credo sia opinione comune in questa Camera e fuori, che noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema. Dall’altra parte non vogliamo neppure un’indipendenza amministrativa come quella degli Stati uniti d’America, o quella della Svizzera…».
È il 31 marzo 1861, e Marco Minghetti, ministro dell’Interno, sta presentando alla Camera dei deputati i lavori della Commissione per lo studio e la compilazione di progetti di legge relativamente alla riforma dell’ordinamento amministrativo dello Stato – Commissione che era stata istituita presso il Consiglio di Stato dal suo precedessore, Farini, presidente del Consiglio Cavour.
È della “forma” che lo Stato italiano dovrà assumere, che si sta discutendo in quel consesso. Minghetti presenta quattro progetti di legge: 1) la ripartizione del Regno e l’ordinamento delle autorità governative e amministrative; 2) l’amministrazione comunale e provinciale; 3) i consorzi tra privati, comuni e province per cause di pubblica utilità; 4) l’amministrazione regionale.
Con il progetto su “l’amministrazione regionale”, le Regioni venivano costituite sotto forma di consorzi obbligatori fra le province, e in quanto tali riconosciute come persone giuridiche, come enti autarchici, sia pur a fini limitati, quali la cura dell’istruzione degli istituti superiori, degli archivi storici, delle accademie di belle arti, e inoltre dei lavori pubblici per fiumi, torrenti, ponti, argini e strade, «di fare regolamenti per il prosciugamento e la bonifica dei terreni, per le colture irrigue, e per gli esercizi della caccia e della pesca».
Minghetti argomentava il progetto dicendo che le tendenze, le abitudini, gli interessi che si erano stabiliti intorno ai centri regionali in modo corrispondente all’indole diversa delle popolazioni non potevano essere distrutti, e che comunque non sarebbe stato opportuno distruggerli; che l’imporre subito e ovunque le identiche forme e i medesimi regolamenti avrebbe arrecato gravi inconvenienti e suscitato forti ripugnanze, senza corrispondente profitto.
Si ebbe, Minghetti, molti applausi dagli onorevoli deputati. Ma la Camera respinse il suo progetto. Per l’Italia tutta sarebbe andato bene il sistema accentratore che vigeva nel Piemonte, mutuato dalla Francia. Il regionalismo veniva sepolto.
Dopo la Prima guerra mondiale, il regionalismo venne energicamente sostenuto dal Partito popolare, che fa dell’istituzione della regione uno dei principali punti del suo programma. A ciò contribuisce l’attività teorica e politica del segretario del partito, don Luigi Sturzo, il quale propugna il regionalismo come mezzo per migliorare la condizione del Mezzogiorno e delle isole. Ma il movimento a favore delle autonomie locali venne completamente soffocato dal fascismo, che si mostrò decisamente ostile a ogni tendenza decentratrice.
L’esigenza regionalistica divenne pressante nel secondo dopoguerra, sia come reazione all’esasperato accentramento attuato dal fascismo, sia come antidoto contro le tendenze centrifughe, che si manifestavano nelle regioni alloglotte (Valle d’Aosta e Alto Adige) e nelle isole (Sicilia, Sardegna).
Nella Dc è Scelba a avere idee precise; in un’ampia conversazione radio dell’1 novembre 1944, aveva dichiarato che per sconfiggere il separatismo siciliano occorreva «attuare quell’autonomia regionale, invano invocata sin dal 1919… senza aspettare la Costituente».
Il 26 gennaio e l’1 marzo 1946 ci sono gli assalti contro il trasmettitore radio di Palermo. Il governo, che interpreta come provocati dal ritardo nella concessione dell’autonomia anche i fatti di Palermo (11 marzo) e di Messina (22 marzo, quando un corteo di centocinquanta licenziati dall’Arsenale si ingrossa e si moltiplica, con disoccupati, mogli, madri, ragazzi, e sono assaltati il consorzio agrario, il mercato popolare di piazza Due Vie, l’esattoria comunale, l’intendenza di finanza, gli uffici dell’assistenza postbellica) determinati da proteste contro la disoccupazione, esamina nella seduta del 12 marzo il progetto di Statuto regionale per la Sicilia. Ne seguì un ampio dibattito, e alla conclusione di esso si decise di trasmetterlo alla Consulta nazionale perché lo sottoponesse all’esame di una speciale commissione. Lo Statuto doveva costituire «l’inizio di un’opera di pacificazione
e di più attiva collaborazione per la più efficace ripresa economica e sociale dell’isola».
È del 13 marzo l’annunzio della revoca dell’internamento a Ponza dei capi indipendentisti. Il 27 marzo Finocchiaro Aprile e Varvaro giungono a Palermo su un aereo militare. Solo il 4 aprile il governo trasmise il progetto di Statuto alla Consulta nazionale, senza alcuna modifica o relazione, come
«schema di provvedimento legislativo n. 158». Il 13 aprile le tre commissioni riunite Affari politici, Giustizia, Finanze e Tesoro nominavano una ‘giunta’ per Io studio del progetto.
La Giunta della Consulta esaminò il progetto di Statuto per la Sicilia il 27 e 29 aprile. Lo svolgimento del dibattito nella Giunta e successivamente (il 7 maggio) presso le tre commissioni riunite della Consulta non lascia dubbi sul pressoché totale accoglimento della pregiudiziale ‘politica’: «La Sicilia soffre di un bubbone maligno: il separatismo…».
Per i comunisti, è Li Causi a dare il proprio assenso per le conclusioni della Giunta, favorevoli alla concessione per decreto legge dell’autonomia, ribaltando quanto aveva affermato tra il 19 e il 23 dicembre, nella quinta sessione della Consulta regionale, e cioè che l’alternativa tra autonomia ‘democratica’ e autonomia ‘dei baroni’ non sarebbe dovuta esser sciolta prima, ma dopo – dalla Costituente.
Quando il progetto di Statuto per la Sicilia torna il 15 maggio ’46 al Consiglio dei ministri, l’opposizione di Nenni e dei socialisti, i quali voteranno contro, non impedirà che venga approvato. Nessuno sa ancora se l’Italia sarebbe stata una monarchia o una repubblica, ma anzitutto bisogna “sistemare” la Sicilia. L’urgenza politica è stata accolta.
Alla Costituente, poi, fra la tendenza estrema che voleva attuare un vero e proprio federalismo e la tendenza fautrice di un semplice decentramento amministrativo, prevalse la tesi intermedia favorevole al regionalismo. Ma ci hanno messo venticinque anni, per renderlo operativo.
Quello che qui si vuol dire è che ogni volta che in questo paese si discute di “regionalismo”, di decentramento, di autonomia, ogni volta la scelta per la trasformazione amministrativa è per la forma-Stato centrale.
Abbiamo definito sinora questo processo di “regionalismo differenziato” come “secessione dei ricchi”. Ma “secessione” è quando qualcuno se ne va – e qui nessuno sembra abbia voglia di andarsene dallo Stato, dal sistema-Italia. Qui, piuttosto, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna vogliono prenderselo lo Stato. Questo è un “golpe”. Istituzionale, ma golpe. E questo è il golpe dei ricchi, il golpe di quella parte di territorio che produce il 40 percento del Pil.
Ogni processo di centralizzazione della forma-Stato avviene perché un soggetto economico-politico se ne fa carico. È quello che accadde all’indomani dell’unità d’Italia – con il Piemonte che faceva da traino economico e amministrativo per la neo-industrializzazione. È quello che accadde all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando “il vento del nord” – il triangolo industriale, e le rappresentanze della classe operaia – dovevano ricostruire e “ammodernare” e democratizzare il paese, perché, dopo l’autarchia fascista, trovasse il proprio posto nel mercato mondiale che si andava configurando.
Oggi, c’è un nuovo soggetto economico-politico – e sono “i territori” delle regioni del Nord – che vuole ri-statalizzare questo Paese. Vuole, perciò, riconfigurarlo, riconfigurare e ri-colonizzare il Sud, riconfigurare il sistema-Italia.
La sbornia da auto-imprenditoria e individualismo rampante, dal perseguimento del bene pubblico solo perseguendo fino in fondo i propri privati interessi, da tutela dalle ingerenze dello Stato nella vita privata e economica di ogni singolo cittadino, da “mercatismo”, è passata. Nazionalizzazione, statalizzazione, ritorno all’industria pubblica, nazionalizzazione delle banche – sono parole di nuovo comuni nella chiacchiera politica: lo Stato deve garantirci la sicurezza, lo Stato deve garantirci il reddito. È un discorso comune della politica, come se la destra e la sinistra hegeliana – beh, per alzare un po’ il livello – entrambe smarrite sulla strada del liberismo avessero di nuovo trovato la retta via e il fondamento comune, lo Stato.
Quello che qui si vuol dire è che ci troviamo di fronte un processo di lunga lena – già il pre-accordo delle tre regioni prevede che per dieci anni non si metta più mano alla “riforma” e, considerando quanto duraturi diventino in questo paese le cose precarie, si può pensare che per cinquant’anni almeno quello che si andrà costituendo sarà la forma nuova dello Stato.
Tornare indietro, riportare le lancette istituzionali allo spirito costituente di un’Italia che consideri necessario perequare, riequilibrare, omologare, aiutare, risarcire, riparare le differenze territoriali – è un’idea vana. L’unità nazionale è stata già spezzata dalla cancellazione della “questione meridionale” nella nostra costituzione materiale e formale – che era proprio un asse fondativo all’indomani della Seconda guerra mondiale e che ha funzionato da motore democratico per tutti i trent’anni di fordismo e keynesismo in questo paese. Quello cui assistiamo è una differenziazione e una gerarchizzazione costituzionalizzate all’interno degli stessi confini nazionali, all’interno di uno stesso Stato. È questo il punto: la rottura tra democrazia formale, rappresentativa e nuova forma dello Stato: se non si coglie il carattere “autoritario” di questo progetto non se ne coglie la violenza.
Questo processo si costituisce nel Sud a mezzo di un personale politico che ritrova e si ricicla nelle forme nuove dello statalismo e del nazionalismo il suo approdo – non è una novità: Crispi, che mandò l’esercito a sparare sui Fasci Siciliani era un siciliano, era un patriota risorgimentale. Perciò, noi non ci battiamo contro il nord, la contrapposizione non è sud contro nord: la contrapposizione, come sempre è stata, è tra Stato autoritario centrale e forme nuove di democrazia dei territori. Questo è quello che noi chiamiamo indipendenza.
Vincenzo Cuoco nel suo Saggio sulla rivoluzione del 1799 scriveva: «La nazione napolitana ha i suoi comizi, e son quei parlamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e vedervi un popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, scegliere le persone cui debba affidare le sue cose… Colla costituzione francese del 1795 tutto si è rovesciato… Io perdono ai francesi il loro sistema di municipalità: essi non ne avevano giammai avuto; né ne conoscevano altro migliore. Ma quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia a dolersi di una istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti dei suoi diritti?»
Gli “autonomismi regionali” sono finiti – sono finiti, ora e da un pezzo, perché la spinta propulsiva, democratica e produttiva, che essi potevano avere non ha più spazio né possibilità nelle forme nuove del capitalismo globale, all’interno del quale i nazionalismi e gli statalismi cercano la loro collocazione e il loro ruolo. Per essere autonomisti oggi, bisogna essere indipendentisti.
È necessario che una soggettività politica meridionale si faccia carico di contrapporsi a questo processo autoritario di ri-statalizzazione e di ri-nazionalizzazione. Se non c’è soggettività politica meridionale – fatta di mille associazioni, mille coordinamenti, mille territori – che “conti”, non c’è modo di contrapporsi a questo processo.
Un primo passo importante sarebbe una grande manifestazione meridionale – a cui arrivare dopo una capillare organizzazione e preparazione nei territori.