Il CETA fa bene al sistema nord. E penalizza la Sicilia
Pronti via, il Governo fa ripartire il dibattito sul CETA, l’accordo di libero scambio tra Canada e Unione Europea. Già attivo in via provvisoria da due anni, il CETA non è stato ancora ratificato dall’Italia.
Pochi giorni fa il nuovo Ministro all’agricoltura Bellanova ha riacceso la discussione sull’accordo commerciale rilasciando delle dichiarazioni in cui afferma che il CETA farebbe bene al sistema Italia. Inoltre ha affermato che l’accordo, già attivo da due anni, ha prodotto risultati importanti per l’economia italiana.
Il CETA prevede l’eliminazione dei dazi tra Canada e Unione Europea. Il Canada potrà esportare nei Paesi europei che firmano l’accordo senza dazi e potrà far partecipare le sue aziende ad appalti pubblici. In modo speculare, gli Stati dell’UE potranno fare lo stesso.
Nel CETA, però, è compresa solo una parte dei prodotti agro-alimentari italiani, quelli più richiesti e acquistati dai consumatori canadesi. Negli elenchi di protezione, sono state incluse 41 Dop e Igp, mentre rimangono fuori dal sistema di protezione le rimanenti 250. Già questo è il primo aspetto critico.
Si aggiunge poi che tra i 41 sono annoverati prevalentemente prodotti del Nord e del Centro Italia a discapito di quelli del Sud che hanno da sempre mostrato una elevata tipicità. In particolare, solo 5 dei prodotti tutelati dal trattato appartengono al Sud (Sardegna inclusa), contro i 24 del solo Nord. I prodotti siciliani sono solo tre: Arancia rossa di Sicilia, il Cappero di Pantelleria e il Pomodoro di Pachino.
Col CETA il Nord Italia ha, di fatto, trovato il modo di arricchirsi di più (esportando propri prodotti) a scapito, non di Stati esteri, ma a scapito delle regioni del Sud, Sicilia in primis.
I produttori siciliani non solo non potranno avvalersi della protezione del CETA, ma dovranno accettare passivamente l’importazione del grano canadese. Sappiamo bene che il grano prodotto in Canada entra in Italia a dazio zero già da tempo, ma la sottoscrizione del trattato agevolerà il processo di importazione e ucciderà definitivamente l’agricoltura siciliana basata in larga parte sulla produzione di questo cereale di alta qualità. Caratteristica di cui non gode quello canadese pre-trattato con il glifosato, un pesante pesticida che può risultare cancerogeno per il corpo umano. Ma è proprio la mancanza di qualità che permette al prodotto canadese di essere venduto a un costo minore e più competitivo.
La domanda sorge spontanea: cose ne facciamo, allora, del grano che si produce in Sicilia? Includendo nella questione molti altri prodotti di qualità dell’Isola, generalizziamo la domanda in: cosa ne facciamo dei nostri produttori locali?
Proprio in Sicilia, da quando è iniziato il processo, si sente maggiormente il peso di un mercato globalizzato che sta letteralmente schiacciando la piccola produzione locale e di qualità. Ma questo poco importa alla classe dirigente dello Stato italiano che ha il compito di trovare risposte conformi esclusivamente alle logiche del grande mercato internazionale anche a costo di soffocare definitivamente un settore fondamentale per la Sicilia come quello agricolo.
Il trattato ci offre però la visione di un quadro realistico: il Canada importerà maggiormente prodotti italiani– del Centro-Nord, s’intende – senza dover pagare dazi, e l’Italia ricambierà gentilmente impegnandosi ad acquistare prodotti canadesi di bassa qualità, possibilmente dannosi per la salute, senza regole – come se il Canada fosse una regione della Penisola.
Quando il Ministro all’agricoltura afferma che il CETA farebbe bene al sistema Italia, probabilmente dal sistema Italia esclude la Sicilia. E, in effetti, rispetto alla Sicilia, è più italiano il Canada. Noi lo diciamo da tempo, ormai lo affermano anche loro.