Osservazioni sull’economia siciliana (1)
Introduzione
Le cifre, le statistiche e le previsioni sull’economia siciliana, lo sappiamo tutti, non descrivono affatto la realtà che abbiamo di fronte; non solo si fondano su dati imprecisi o volutamente deformati, ma tendono a nascondere le condizioni generali in cui versa la costruzione economica e sociale dell’isola. Ci siamo proposti di indagare sull’andamento di alcuni settori chiave dell’economia siciliana, pur sapendo di dover esercitare la massima cautela nell’interpretazione dei dati ufficiali; abbiamo cercato di ricostruire la piega presa da alcuni settori-chiave sotto la “tutela” delle politiche nazionali e comunitarie, di comprendere le loro recenti trasformazioni e mettere in luce il loro legame con le dinamiche neo-coloniali.
La Sicilia viene concordemente suddivisa in tre macro-aree economiche: petrolchimica (Sicilia orientale: Siracusa, Catania e Messina – settore Primario); agricoltura e allevamento (Sicilia centrale: Agrigento, Caltanissetta, Enna – settore Secondario); edile e servizi (Sicilia occidentale: Palermo, Trapani – settore Terziario). Si tratta, naturalmente di una suddivisione che tiene conto solo delle attività prevalenti in zone geografiche particolari; ciò non esclude, però, la presenza di altre attività economiche, quali la pesca o la zootecnia, che possono costituire il polmone economico di determinati territori. La suddivisione, in ogni caso, aiuta a comprendere le diversità territoriali, il loro peso sociale, culturale e politico nell’ambito degli orientamenti economici nazionali e comunitari.
Prima di addentarci nell’analisi di tre aspetti delle tre macro-aree (agricolo, petrolifero e della grande distribuzione), pensiamo di dover fare riferimento ad alcuni tratti generali dell’economia isolana, cioè al contesto generale nel quale essa opera. Un contesto di crisi e incessante declino, che non fa più neanche sognare inversioni di tendenza, che grava sulle spalle del proletariato siciliano e perfino di quella parte di borghesia tagliata fuori dai processi di ristrutturazione e concentrazione “liberisti”.
Eccone alcuni dettagli: dall’inizio della crisi del 2007 a oggi il numero di imprese siciliane è diminuito più che altrove; in alcune zone il tasso supera di molto il -50%. Come conseguenza, la disoccupazione è particolarmente elevata e coinvolge quasi due terzi della forza lavoro attiva. Dal 18,4% registrato nel 2007, nel 2015 si è passati al 26,3; ovviamente, si tratta di dati ufficiali, notoriamente inattendibili. Dati che non tengono conto dei lavoratori in cerca di prima occupazione, del lavoro nero, dell’emigrazione forzata e via discorrendo. Ciononostante, un livello così alto non si era mai raggiunto dagli anni dell’immediato dopoguerra. Nei resoconti pubblicati dalla Regione Siciliana le tinte non sono così fosche, le cadute appaiono come ripresine, i crolli come piccoli cedimenti; della sofferenza sociale non c’è traccia nelle loro valutazioni, né si prendono in considerazione le ricadute dei loro numeri sulla collettività. Il rapporto statistico della Regione sfacciatamente lancia messaggi ottimistici e rassicuranti: “Timidi segnali di ripresa nell’economia siciliana: il Pil della Sicilia è in crescita: +0.4%. A far ben sperare è anche la crescita dell’occupazione e il conseguente calo della disoccupazione, che scende sotto il 20%, soglia superata nel biennio 2013-2014”. Gli esperti della Regione fanno finta d’ignorare che l’aumento del PIL è spinto non dal rilancio dell’occupazione ma dal crollo del prezzo delle materie prime energetiche. Neanche i parrucconi della Banca d’Italia riescono a mentire così spudoratamente. I dati della Banca d’Italia, in linea con quelli ISTAT, parlano infatti di un tasso di disoccupazione medio del 22%, oltre due punti percentuali in più a confronto di quanto sostengono gli “esperti” della Regione Sicilia e, comunque, molto lontano, troppo lontano, incredibilmente lontano, dal 26,3 registrato solo un anno prima. Se gli “esperti” della Regione avessero ragione, saremmo di fronte a un calo della disoccupazione di oltre 7 punti in un solo anno, altro che “timidi segnali di ripresa”. La Sicilia sarebbe in testa a tutte le regioni europee, e con un bel distacco!
Il secondo settore: l’agricoltura.
La crisi agricola in Sicilia non è cosa di questi giorni. Dai dati già registrati nel decennio 2000-2010 si evince come ogni “ambito coltivativo” è al collasso. Il collasso continua, sempre più grave. Alcuni esempi: in pochi anni le aziende per le coltivazioni fruttifere si sono ridotte del 58,8%; quelle per la barbabietola del 69,6%; fino ad arrivare al 90,4% per le patate e al 95,5 per le coltivazioni “legnose agrarie”.
Se esaminiamo questa perdita a fianco della concentrazione aziendale, si vede chiaramente che alla accresciuta concentrazione non ha corrisposto uno sviluppo del settore. Piuttosto, siamo di fronte a un visibile regresso sia nella produzione sia nell’occupazione. Lo si vede facilmente dalle caratteristiche del quadro complessivo: 1) sostanziale stabilità della superficie agricola utilizzata (SAU), che solo nel decennio 2000-2010, passa dai 363 mila ettari ai 316 mila (con una perdita di 50 mila ettari di terreno); 2) nel 2000 il numero aziende era di circa 750.000, nel 2010 si sono ridotte a 470.000, infine nel 2016 se ne contano poco meno di 219.000 (dati ISTAT). Le aziende più colpite sono le più piccole, che tuttavia si sviluppano su una superficie inferiore. Ciò significa che se da un lato precipita il numero delle aziende, dall’altro cresce la superficie media utilizzata, che passa da 3,7 a 6,3 ettari. In altre parole, un terzo delle aziende ha in mano i due terzi della SAU.
Alla concentrazione, dunque, corrisponde un incremento della dimensione media delle aziende agricole, che in Sicilia è raddoppiata in appena un decennio. Nell’ambito del territorio regionale, le concentrazioni maggiori di aziende agricole si registrano nella provincia di Palermo (18,0% del dato regionale) e di Agrigento (15,0%).
Il peso della dimensione aziendale ha giocato un ruolo di primo piano nella concentrazione. Si notano, infatti, differenze profonde e significative nella sorte toccata alle piccole, alle medie e alle grandi aziende agricole. Queste ultime, che dispongono mediamente di 30 ettari di SAU, nell’ultimo decennio sono aumentate del 41%. Nello stesso periodo, le aziende medie si sono ridotte del -14% e le piccole, con una SAU di appena due ettari, scompaiono a ritmi progressivamente crescenti fino a raggiungere il -55% nell’ultimo anno. In ogni caso, nonostante la generale tendenza alla concentrazione, il tessuto connettivo dell’agricoltura siciliana resta ancora formato dalle piccole e medie aziende: le medie, rappresentano il 53% del totale, mentre per quelle al di sotto dei due ettari la percentuale raggiunge il 75%. La concentrazione, dunque, colpisce la porzione quantitativamente e qualitativamente più significativa dell’agricoltura siciliana.
I processi di concentrazione sono stati promossi sia attraverso gli interventi legislativi nazionali, sia attraverso quelli comunitari. Entrambi mirano a incentivare la creazione di strutture societarie aggregate, tecnologicamente attrezzate, capaci di rappresentarsi sui mercati internazionali, indifferenti alle sorti del territorio e con gli occhi unicamente rivolti all’esportazione. Lo sviluppo della concentrazione su un sistema agricolo come quello siciliano fondato sulle piccole imprese e sulla produzione per il mercato interno, è il primo responsabile delle pesantissime perdite sul piano occupazionale, del crollo della produzione agricola e della sempre più profonda dipendenza dall’importazione agroalimentare.
Per quanto riguarda la gestione delle aziende agricole, ci troviamo di fronte a una sempre maggiore presenza di aziende agricole strutturate nella forma societaria. Nel 2000 poco più del 10% per cento della superficie agricola era gestita da società di persone, oggi tale percentuale ha raggiunto il 17,7%.
Ancora all’inizio degli anni 2000, l’unica figura societaria prevista dal codice civile in agricoltura era la cosiddetta “comunione familiare”. Adesso, invece, in forza degli interventi legislativi nazionali e comunitari, la gamma di forme giuridiche aziendali si è notevolmente modificata; l’azienda agricola verso cui spingono le politiche comunitarie deve avere la forma della società di capitali ed essere gestita da imprenditori agricoli professionali. Il numero delle società di capitale si è sviluppato a ritmi di crescita ben oltre il 100%, come si vede nel seguente quadro della Banca d’Italia: aziende individuali: -37,7% in Sicilia contro il -33,6% nazionale; aziende con forme societarie:+ 171,8% in Sicilia contro il +48% nazionale.
L’azienda individuale è gestita da una persona fisica che esercita anche attività di coltivazione del fondo, in maniera costante e sistematica al fine della produzione e dello scambio del prodotto. In Sicilia, ci sono circa 216 mila aziende individuali, il 98,2% del totale. A fronte di ciò, nel corso dell’ultimo decennio si è registrato un consistente aumento delle strutture societarie passate dalle 1.349 del 2000 alle 3.667 unità di oggi.
Dunque meno aziende agricole ma di più grandi dimensioni; al contempo, meno gestori singoli e più società di capitale. Quasi scomparsi i proprietari terrieri che utilizzano la superficie agricola per la propria azienda. I terreni vengono dati in affitto o in uso gratuito. La manodopera è in prevalenza familiare (74%); il restante 26% è lavoro salariato, di cui oltre il 24% a tempo determinato – si tratta di circa 130.000 lavoratori di cui il 12% è rappresentato dai lavoratori immigrati.
Per cercare di comprendere meglio la realtà economica e sociale dell’agricoltura siciliana è utile prendere in considerazione i dati riguardanti la forma di conduzione aziendale. Questa coinvolge in prima istanza il rapporto tra il capo dell’azienda e i suoi lavoratori. Dalla seconda metà del Novecento ad oggi le forme di conduzione più tradizionali sono gradualmente scomparse, scomparsi i latifondisti e la mezzadria; il “giornataro schiavizzato” ha preso il posto del bracciante agricolo. Nello stesso arco di tempo si è consolidata l’azienda a conduzione diretta, venuta fuori dalle tante riforme agrarie e dell’applicazione delle leggi per lo sviluppo della piccola proprietà contadina e delle cooperative contenute nei PSR (programmi di sviluppo rurale) di cui tanto si vanta l’assessore Cracolici. Sebbene nel censimento del 2010 le aziende agricole a conduzione diretta raggiungessero il 94,3%, oggi il rapporto si è invertito e solo le società di capitale a conduzione con salariati hanno mostrato
una lenta ma progressiva crescita. A livello provinciale le società agricole a conduzione con salariati sono presenti a Caltanissetta (10,5%), seguita da Ragusa (8,1%) e Catania (6,6%). A livello comunale Resuttano si attesta al primo posto con il 52% di società con salariati. Tuttavia, non bisogna dimenticare che queste aziende rappresentano una percentuale minima nel panorama dell’agricoltura siciliana.
L’ormai storica trasformazione del mondo contadino nel secondo dopoguerra, aveva provocato sconvolgimenti sociali, trasformazioni culturali ed economiche di non poca rilevanza. Si era di fronte ad una trasformazione di grande portata, alla “urbanizzazione”, per dirla in breve, della campagna mediante la cultura del profitto. La trasformazione successiva, più recente, volge verso la professionalizzazione e la tecnologizzazione dell’attività agricola e, come si è detto, verso un progressivo accorpamento di “reti” omogenee che si assicurano il grosso della produzione e della distribuzione. Oggi, per dirla altrimenti, il monopolio delle cosiddette “filiere” minaccia di distruggere l’intera struttura aziendale, lasciando in vita solo i Distretti produttivi sempre più votati, come raccontano i narcotizzanti ritornelli di Cracolici, all’esportazione del “made in Sicily” verso i ricchi mercati del Nord.
Le conseguenze della creazione dei Distretti gravano sulle centinaia di migliaia di persone attualmente legate alla piccola e media azienda agricola. I processi di concentrazione, imposti dalla Comunità europea e prontamente messi in atto dalla Regione siciliana, sono effetto della presenza dei Distretti agrari, raggruppamenti di almeno 50 imprese (con una media di 150 addetti ciascuna) che condividono un sistema di relazioni produttive, tecnologiche, informatiche e commerciali, si spartiscono le fette di mercato più consistenti, fanno incetta dei finanziamenti lasciando che la gran parte dell’agricoltura siciliana deperisca e scompaia. La costituzione dei Distretti risale agli anni 2012-13, con qualche ritardo rispetto alle disposizioni europee contenute nel “Companies Act” varato nel 2006.
I nuovi Distretti agrari vengono dipinti come le colonne portanti della nuova agricoltura siciliana. Ma vediamo se le cose stanno davvero in questo modo: in Sicilia ci sono 9 Distretti che operano nel settore agroalimentare; in tutto 3500 aziende aggregate (delle 219 mila esistenti), che da sole gestiscono un fatturato di 1,5 miliardi. I Distretti raccolgono le poche società di capitale capaci di attrarre finanziamenti regionali e comunitari; essi sono chiamati a fare rete con le istituzioni, a fare i conti con le infrastrutture tecnologiche, con le nuove forme comunicative, con una gestione aziendale votata al profitto, con economie di scala e strategie di marketing. Per poter competere, i Distretti devono risparmiare sul lavoro, spargere semi della Monsanto e veleni della Syngenta, produrre a costi sempre più bassi per acquirenti sempre più ricchi. I Distretti intercettano oltre il 90% dei finanziamenti del settore, rappresentando così un ostacolo per le aziende agricole che non ne fanno parte e che, come si è detto ripetutamente, costituiscono la stragrande maggioranza.
Di non secondaria importanza è, nel quadro complessivo, l’aumento dell’importazione agricola da parte di un territorio, come quello siciliano, che sarebbe in condizione non solo di essere sufficiente a se stesso, ma anche di esportare le eccedenze. Anche in questo caso i dati parlano chiaro. Negli ultimi due anni, infatti, si è passati da un valore delle esportazioni cresciute di poco più di 6 punti, ai 9 punti di crescita delle importazioni: dai 52,8 milioni di euro delle importazioni nel 2014 si è passati ai 61,5 nel 2015. Una conferma di quanto sostiene Nicala Zitara quando illustra i caratteri del “colonialismo interno”, che condannerebbe i territori meridionali al consumo, alla distruzione della propria base produttiva e alla promozione di monoculture gestite dalle oligarchie europee.
La spocchia mostrata da mister Cracolici nell’esaltare una “pur timida” crescita del 7,7% dell’occupazione nel settore agricolo è del tutto fuori luogo, quando si pensa che quella percentuale contiene circa 2 mila giovani che prendono in mano la gestione aziendale dei loro padri e, soprattutto, tutti coloro che espulsi da altri cicli produttivi cercano riparo nel lavoro agricolo. Le parole di Cracolici suonano come offesa alla verità oggettiva; l’incremento dei contratti nei Distretti agrari (la sola cosa che Cracolici conosce, avendo ascoltato le sirene regionali ed essendosi appassionato al loro canto consolatorio), non ferma il crollo della piccola impresa e dei suoi occupati, la riduzione della quantità di prodotto locale, il restringimento della SAU, gli aumenti dell’importazione e, non ultimo, non libera dalla stretta neocoloniale che strozza l’agricoltura siciliana. Come l’Etiopia ai tempi dell’Italia fascista, la Sicilia dei tempi moderni è piegata dall’espansione delle terre incolte, dalla disoccupazione e dal lavoro precario e malpagato, dall’emigrazione, dalla devastazione del territorio, dalle basi militari che spuntano come funghi velenosi al centro delle faggete.