La festa dei morti in Sicilia
Il 2 novembre in Sicilia si celebra “la festa dei Morti”, una ricorrenza che affonda le sue radici molto lontano nella storia e che unisce tradizioni popolari legate al lavoro della terra con quelle cristiane.
La data
La scelta della data del due novembre pare essere legata alla nostra Isola e risale all’anno 928 D.C. Nel convento di Cluny viveva l’abate Odilone, il quale era molto devoto alle anime del Purgatorio. Si dice che uno dei suoi confratelli, di ritorno dalla Terra Santa, gli raccontò di essere stato scaraventato da una tempesta sulla costa della Sicilia. Lì incontrò un eremita, il quale gli raccontò che spesso aveva udito le grida e le voci dolenti delle anime purganti provenienti da una grotta insieme a quelle dei demoni che gridavano proprio contro l’abate Odilone.
All’udire queste parole, Odilone ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 Novembre come giorno solenne per la commemorazione dei defunti. Da allora, dunque, la festa dei morti viene celebrata in questo giorno. (Fonte: Famiglia Cristiana.).
La tradizione della cesta di dolciumi e la visita al cimitero
La tradizione vuole che durante la notte tra l’uno e il due novembre i bambini (e non) ponessero il cesto vuoto sotto il letto e recitassero una filastrocca che è diversa nei vari paesi dell’Isola (una delle più note: «Armi santi, armi santi, Io sugnu unu e vuatri siti tanti, Mentre sugnu ‘ntra stu munnu di guai, Cosi di morti mittitiminni assai»).
La cesta sarebbe stata riempita dai cari defunti con biscotti, dolcetti e un piccolo regalo e poi nascosta accuratamente in qualche angolo della casa.
«Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre» – scrive Andrea Camilleri in Racconti quotidiani.
La mattinata continua poi con la visita dei morti al cimitero. Vestits a festa, le famiglie si recano davanti le tombe dei cari per salutarli e ringraziarli.
Continua Cammilleri: «Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire».
Il culto dei morti e il lavoro della terra
Il culto dei morti in Sicilia è, tradizionalmente, legato al lavoro della terra. Iganzio Buttitta in «I morti e il grano. Tempi del lavoro e ritmi della festa» scrive infatti che il contadino arcaico crede fermamente nella relazione tra morti e vivi, tra sottosuolo e spazio del lavoro contadino. Esiste una dipendenza inscindibile del raccolto dalle forze della terra. Diversi modi di dire come «Si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi» sostengono proprio l’idea che i vivi hanno bisogno dei morti per difendere ciò che è stato seminato e proteggere i raccolti.
Il calendario rituale, in generale, in Sicilia non è legato direttamente al ciclo naturale, ma mediato dal ritmo delle attività lavorative dell’uomo. Non a caso in esso s’individuano non già quattro stagioni, ma tre fasi principali segnate da tre momenti di passaggio: ottobre – novembre (periodo della semina), marzo – aprile (la completa germinazione della pianta), giugno (la mietitura).
Lo scopo e il proposito di questi riti consistono nello stabilire e mantenere il controllo sul corretto svolgersi dei cicli naturali e produttivi, garantire la stabilità del giusto ordine nel mondo circostante. Così per esempio, i riti del periodo autunnale-invernale rivelano specialmente il loro carattere ctonio, associato alla presenza dei morti (rappresentati in particolare dalle maschere, dai poveri o dai bambini). Contrariamente all’opinione diffusa della graduale scomparsa dei culti e festività agrarie nel mondo moderno, Buttitta segnala che essi (in gran parte di origine anteriore all’epoca cristiana e legati alla venerazione dei defunti antenati-protettori) si sono conservati in Sicilia molto meglio di quanto si usi pensare.
Fiere
Le celebrazioni implicano sempre la costituzione di mercati temporanei, dove non possono mancare banchi e postazioni volanti che offrono dolciumi, semi tostati, frutta secca ecc.
Un carattere del tutto peculiare riveste a Palermo la festa dei Morti. La Fiera che per tradizione si allestisce l’1 e il 2 novembre rispecchia l’antica credenza che i Morti rechino doni ai bambini: dalle “pupe di zucchero” ai giocattoli, con la significativa permanenza del cannistru, un cesto colmo di dolciumi composti insieme a frutta fresca e secca. Le bancarelle propongono sontuose esposizioni di questi alimenti, mentre postazioni volanti sono occupate dai venditori di caldarroste e bevande.
Nella notte fra l’1 e il 2 novembre resta emblematico – ben oltre la sua riutilizzazione in chiave consumistica – l’uso di visitare a Palermo la Fiera dei Morti. Anticamente allestita dentro il mercato della Vucciria, spostata poi per lunghi decenni nelle strade prospicienti il teatro Massimo, negli ultimi anni è stata trasferita ai margini della città, verso la Circonvallazione. Una marginalità nello spazio che non implica però una sostanziale marginalità del suo senso. La Fiera dei Morti rende questo luogo denso del via-vai di adulti e bambini, e dei loro desideri. Giocattoli, vestiti, oggetti d’arte e domestici; banchi di frutta fresca e secca adorni di murtidda (mortella) piena di bacche dolci e di melagrane rosse di semi; rivendite di dolciumi tipici della pasticceria isolana, ma soprattutto estese e multiformi tavole dei venditori su cui campeggiano i pupi di zucchero.
La tradizione vuole che questi regali siano portati ai più piccoli della famiglia dai loro nonni defunti proprio la notte fra l’1 e il 2 novembre. Essi sono il segno di un’antica alleanza fra i morti e i vivi; fra i primi che in questa notte ritornano e gli altri che li accolgono in casa. La tavola viene imbandita: acqua per dissetarli e accanto u cannistru. Al centro una pupa di zucchero.
In questo orizzonte simbolico non è un caso che, dopo il pasto notturno dei morti, siano i bambini a consumarne l’indomani i “resti”: un segno della continuità e comunanza di vita fra le vecchie e le nuove generazioni.
La festa dei morti e il cibo
L’associazione di cibi a specifiche ricorrenze festive è tipica della tradizione popolare. In particolare, i cibi legati alla festa dei morti sono diversissimi, variano dal dolce al salato e sono diversi anche a seconda della zona. Su tutti la già citata «pupa di zucchero», decorata con colori sgargianti e vivaci. I personaggi raffigurati sono vari: dragoni, paladini, bersaglieri, coppie di sposi, dame del settecento fatti da abili artigiani.
Altrettanto diffuso, il marzapane modellato e decorato da sembrare frutta vera di stagione, mustazzola di vino cotto, carcagnette, biscotti regina, rami di melile ossa di morti.
Si aggiungono poi i tetù e i teio, scaccio (frutta secca), munnalori (caldarroste).
Tutti questi dolci si ritrovavano nel cannistru o nella guantera insieme a giocattoli o piccoli doni.
Scrive Buttittia: «In Sicilia, è molto diffusa la tradizione di preparare la cuccìa (frumento e ceci o frumento e fave secche) nell’occorrenza della Commemorazione dei defunti e in altre date festive tra l’autunno e la primavera».
Per il 2 Novembre l’uso è attestato tra l’altro a Palazzolo Adriano, a Mirabella Imbaccari, a Mazzarino, a Sommatino, a Delia, a Riesi, paese quest’ultimo dove la cuccìa (frumento e fave) è cucinata unitamente a cotenne di maiale e condita con olio nuovo. Il fatto che il consumo della cuccìa risulti così iterato non fa che confermare la sua relazione, esplicitamente avvertita, con il mondo ctonio. Esiste la consapevolezza che il ciclo del grano sia sottoposto al controllo di coloro che abitano nelle profondità della terra.
Un altro piatto tipico di questa festività sono le favi a cunigghiu (fave a coniglio), dette in alcune zone anche favi’n quasuni. L’uso delle fave era in voga anche a Palermo nel XVIII secolo, ma in città si prediligono tuttora le muffulette schiette o maritate, pane morbido e tondo ripieno. In alcune parti della Sicilia, si è soliti accompagnare le fave alle armuzzi, pane antropomorfo raffigurante fino al tronco le anime del purgatorio con le mani incrociate sul petto.