Fermare la catastrofe!
Negli ultimi mesi un grande movimento ecologista ha fatto irruzione nel dibattito pubblico mondiale. Sulle orme di Greta e dell’appello lanciato da 15 mila scienziati, il venerdì di ogni settimana è diventato giornata di mobilitazione internazionale. L’obiettivo è fermare i cambiamenti climatici, salvare il pianeta dall’inquinamento causato da un sistema di produzione basato sulle fonti fossili. Un allarme per tutto il globo e la richiesta, rivolta ai governi dei paesi responsabili, di un cambiamento netto di rotta. Questi propositi hanno fatto riversare nelle piazze di tutto il mondo milioni di giovani. E dalle piazze, questi propositi e rivendicazioni hanno continuato ad acquisire forza, riconoscimento, legittimità.
Al netto dei negazionisti, lo stato di salute del pianeta terra è evidentemente molto peggiorato negli ultimi anni. E a dirlo c’è la gran parte della comunità scientifica. Viene riportato da più fonti che: la quantità di acqua dolce disponibile per la popolazione mondiale è diminuita del 26%; il numero delle zone oceaniche in cui la vita animale e vegetale non si riproduce più a causa dell’inquinamento e della debole quantità di ossigeno, è aumentata del 75%; le emissioni di gas serra sono aumentate di oltre il 60%; la temperatura media terrestre è aumentata del 167%; nel Mediterraneo aumenta la concentrazione di idrocarburi (circa 38 milligrammi per metro cubo d’acqua); l’erosione delle coste ed il consumo di suolo sono sempre più elevati. Questi sono solo alcuni dei danni che l’ambiente che ci circonda sta riportando. Danni che hanno delle ripercussioni dirette e immediate sulle nostre vite. Sulla stessa possibilità della vita sul nostro pianeta.
C’è chi definisce Antropocene l’era geologica in cui viviamo. Questa espressione indica che i cambiamenti climatici in atto e, in generale, le catastrofi che si presentano sempre più spesso e con ripercussioni sempre più gravi, sono dovute alla presenza e all’azione dell’uomo sulla terra. Cosa che condividiamo. Tuttavia riteniamo che centrando l’attenzione sull’uomo in generale e sul suo agire in generale sulla terra, si finisca per perdere di vista le azioni particolari che hanno storicamente prodotto e che continuano a produrre il disastro ambientale in cui ci troviamo. Una generalizzazione, insomma, che distoglie l’attenzione dalle cause reali del problema. Quest’ultime a nostro avviso vanno invece ricercate nell’affermazione e poi nel dominio di un particolare sistema economico-politico-sociale. È quindi questo sistema che ci ha portati al punto in cui siamo adesso.
Il progressivo peggioramento delle condizioni ambientali, sanitarie ed economiche ha avuto inizio con l’affermazione della rivoluzione industriale e dello stato moderno. In accordo con la logica della guerra, finalizzata a distruggere e ricostruire, in particolare dopo il 1945 si è verificato un aumento significativo di impianti chimici e petrolchimici, grandi opere e speculazione edilizia. A partire dagli anni Settanta l’esasperata cementificazione del territorio ha portato all’aumento del dissesto idrogeologico e, di conseguenza, a catastrofi e alluvioni che sono state circa 3 volte più forti di quelle dei 300 anni precedenti. Nonostante i capi di Stato e di governo dei paesi maggiormente sviluppati continuino a promettere un maggiore impegno per contrastare i cambiamenti climatici, carbone, petrolio e gas continuano a essere al centro del sistema produttivo. Costituiscono infatti i 4/5 della produzione mondiale di energia primaria e circa i 9/10 delle emissioni di CO2.
Quello che si può affermare è che stiamo assistendo alla guerra di pochi contro l’intera umanità. Pochi ricchi spingono verso politiche in cui anche la morte e la distruzione vengono messe a valore. Politiche, quindi, che vanno oltre la necessità della riproduzione umana per garantire la presenza di forza-lavoro. Il crescente numero di abitanti sulla Terra ha condotto grossi gruppi di potere mondiale a generare profitto anche e soprattutto mettendo in discussione la prosecuzione della vita sul pianeta. Ad avere la meglio è ora la volontà di massimizzare i profitti nell’immediato. E le crisi economiche, le guerre, l’inquinamento sono aspetti diversi di una logica infernale che fa crescere esponenzialmente il distacco tra chi ha tanto e chi non ha e non conta niente . La novità sta nel fatto che questo storico dispositivo è oggi interamente orientato dal profitto e include nelle sue dinamiche di produzione quegli stessi soggetti che uccide mettendone a valore persino la malattia e la morte. Basti pensare agli abitanti di territori sfruttati, ai disastri ambientali e sanitari a cui sono esposti.
Una delle alternative che viene spacciata come risolutiva del problema climatico, è la green economy. Intorno questo macro tema gravitano una serie di teorie e pratiche che contribuiscono a confondere e distrarre dalle questioni che più ci interessano: economia circolare, fonti rinnovabili, impianti di trattamento dei rifiuti, raffinerie green, eolico, fotovoltaico. Parole e modelli economici alternativi, spinti, propagandati e sostenuti dagli stessi che hanno generato il problema. Gli stessi che mentre investono nel “bio” continuano a estrarre, raffinare e distribuire petrolio. Gli stessi che alle varie Cop dicono di voler diminuire l’emissione di gas serra in atmosfera, mentre in realtà le emissioni crescono (nel 2017 37 Giga tonnellate di CO2 sono state emesse a causa della combustione di risorse fossili e della produzione industriale: il 2 % in più rispetto al 2016). Non bisogna quindi dimenticare che l’economia verde, come segmento del sistema industriale contemporaneo, non è affatto estranea al paradigma dell’accumulazione, della devastazione dei territori, dell’estrazione spregiudicata di risorse, nonostante la denominazione “bio” che la ammanta.
Il business dello smaltimento, delle bonifiche, della depurazione e delle merci “sostenibili”, oggi come oggi, non è altro che l’altra faccia dello sfruttamento di risorse. Il sistema si riorganizza, capitalizzando anche i resti della distruzione. La produzione viene sempre più spesso riorientata nel recuperare risorse indispensabili e che ormai scarseggiano: basti pensare ai numerosi impianti di purificazione dei materiali di scarto dell’industria cosi da poterli riutilizzare. È la totale messa a valore anche della catastrofe, divenuta ormai il nostro quotidiano, e degli scarti che questa catastrofe produce. In questo senso riteniamo che fin quando quella che chiamano green economy resterà nella mani di chi gestisce il sistema economico basato sulla produzione per il profitto non potrà che essere una variante dell’economia predatoria oggi dominante. Fino a quando, inoltre, misura e scala di produzione non saranno poste fuori dal mercato globale delle merci e dei capitali per adeguarsi ai reali bisogni delle comunità territoriali ogni reale possibilità di uscire dallo stato di catastrofe rimane solamente un pio desiderio.
Lo scorso 27 settembre, in occasione del 3° sciopero globale, milioni di giovani sono tornati a riempire le piazze di tantissime città. Anche in Sicilia, ancora una volta, il protagonismo è stato dei giovani. Un protagonismo che non si riconosce nelle forme tradizionali della rappresentanza e che non vuole delegare ai mediatori di professione la direzione di questo movimento. Una soggettività che sente il problema, lo ha fatto suo e si organizza per fa capire che c’è, che è presente e che non starà a guardare. Da qui bisogna partire per pensare una risposta alla crisi ecologica che rompa con i dispositivi di messa a valore totale. Individuare in maniera netta e precisa i responsabili e andare all’attacco. Questo movimento ha la forza per farlo. Se il capitalismo attuale punta sempre più alla deterritorializzazione ed alla produzione di una “ricchezza finanziaria delocalizzata”, è a partire dalla terra in cui ciascuno di noi vive ed in cui la nostra stessa esistenza è messa in discussione che diventa possibile pensare un’alternativa. Da qui è possibile immaginare un modello di società che metta in discussione l’attuale rapporto tra capitale-territorio. Questo può avvenire solo lottando contro chi, sui diversi territori, mette in atto politiche di distruzione e di sfruttamento. Da qui si può aprire uno spiraglio e inaugurare un vero cambiamento.