Contagio anche nei call center. Intervista a un operatore.
È di questa mattina la notizia che conferma il caso di positività al tampone di una dipendente del call center Almaviva di via Cordova, a Palermo.
La notizia del possibile caso aveva cominciato a circolare già alcuni giorni fa, ma la conferma da parte delle sigle sindacali è arriva solamente ieri notte. La donna, assente dagli uffici dal 5 marzo, sembra essere stata ricoverata presso il reparto malattie infettive dell’ospedale Cervello.
In merito alla questione, al momento, l’azienda ha risposto semplicemente avviando un intervento di disinfezione straordinario nei locali della sede di via Cordova. E mentre sostiene che in questo modo gli ambienti saranno nuovamente fruibili per lo svolgimento dell’attività lavorativa, la preoccupazione tra i 2800 lavoratori continua a crescere. Già dall’avvio delle prime misure di contenimento del contagio da parte del Governo, gli operatori dei call center avevano iniziato a spingere per la possibilità di accedere allo smart working, preoccupati per i rischi che continuare a lavorare in sede comporta.
La preoccupazione dei dipendenti è cresciuta esponenzialmente nelle ultime ore e nei gruppi Facebook divampa la rabbia per le condizioni alle quali ci si ritrova costretti a lavorare. «Pensavo che aspettassero il primo caso per farci stare a casa. E invece no, neanche questo! Domani si va lo stesso a lavoro» – scrive un dipendente preoccupato, a cui un collega risponde: «forse nemmeno se ci scappa il morto!». Date le condizioni, non è da escludere l’ipotesi che i lavoratori optino per un’assenza di massa.
Ma Almaviva non è certo l’unico call center ancora aperto in piena emergenza. Anche per gli operatori delle altre aziende la situazione non è delle migliori.
Intervista a un dipendente dell’Abramo Costumer Care di Palermo.
In che condizioni state attualmente lavorando? Si stanno rispettando le norme previste dal decreto?
Da una settimana circa è uscito un comunicato aziendale che ha disposto di lavorare una postazione sì e una no per seguire le disposizioni ministeriali. La distanza tra le postazioni non è di neanche un metro, ma per il rispetto delle misure ci si arriva. L’azienda sta mettendo in ferie obbligate parecchie persone (che si aggiungono a quelle che si sono messe in ferie autonomamente – data la situazione). Nel mio servizio a turno siamo circa 20 in una stanza, nel momento di punta anche 30. Negli altri servizi sono molti di più. Per quanto riguarda i dispositivi di protezione dal contagio, come le mascherine, non ci è stato fornito nulla attualmente. Come se non bastasse, fino a ieri eravamo costretti a utilizzare le cuffie comuni per lavorare. In pratica arrivi in postazione e utilizzi cuffie comuni che hanno utilizzato almeno altre 40 persone. Solamente da questa mattina ci hanno dato la possibilità di richiedere cuffie personali, a patto che le riportiamo a fine emergenza.
Si sta diffondendo preoccupazione fra i suoi colleghi, soprattutto in seguito alla notizia del primo contagio?
Già da parecchi giorni si lavora in uno stato di angoscia perenne. La notizia della conferma del primo contagio ha fatto crescere la paura. Le condizioni in cui lavoriamo non sono sicure. Molti dipendenti hanno figli, o vivono con i genitori anziani, ovvero con i soggetti più vulnerabili al virus. Soprattutto ha generato sconcerto la notizia del probabile bonus, inserito nel maxi decreto che dovrebbe uscire a breve, di 100 euro per chi a marzo ha continuato a lavorare. Andare a lavoro e rischiare di uccidere te e chi ti sta intorno ha questo valore per lo Stato. Solamente 100 euro.
Ci sono delle soluzioni che l’azienda potrebbe prendere per tutelare la salute e garantire la stabilità economica?
È da settimane che i dipendenti cercano di spingere per lo smart working. In moltissime aziende si è già adottato, non capisco perché la procedura non possa essere avviata anche per i call center. Per svolgere il nostro lavoro servono computer, cuffie, connessione internet e programmi per la gestione della chiamata. Tutte cose che si potrebbero avere in una postazione a casa. In questo modo si potrebbe garantire la continuità lavorativa e il diritto alla salute di tutti.
Resta da chiedersi: quanti contagiati servono per capire che bisogna mettere in sicurezza i lavoratori?