Indipendenti

Indipendenti

Segue a La democrazia social

di Luigi Sturniolo

Tutti i sistemi sottoposti a stress si modificano, si autorganizzano in una forma nuova. Su di essi esercitano ancora influenza i vincoli precedenti. Alcuni di questi sono talmente forti da dare la sensazione che siano essi la forma nuova che il sistema assume. Altri si eclissano, evaporano, tramortiti dalla violenza delle trasformazioni in atto.

Nell’era social i normali meccanismi della rappresentazione assumono carattere paradigmatico. Le narrazioni si allontanano sempre più dai fatti, quasi a svincolarsi da essi. Come accade nelle guerre di borsa – ieri combattute da broker nerboruti o nerd sfigati, oggi regolati da algoritmi – le idee/i titoli si allontanano tanto dalla realtà da finire per collassare.

Oggi è così, viviamo in quel passato che non è più, ma che ci parla per 24 ore al giorno dall’unica finestra che ci è rimasta aperta. A quella finestra si affacciano solo i vertici della società. Agli altri è consentito solo un commento, poi due, tre, quattro, mille. Alla fine la somma dei commenti fa zero e le opinioni sono talmente ingarbugliate da farci andare a letto affidandoci alla buona sorte o a Dio, per chi ci crede.

Fuori da quella finestra rivoli di pensiero raccontano di premonizioni che avevano già annunciato quanto sarebbe accaduto. Ah, se solo gli avessimo dato ascolto! È solo una scusa il virus. Le emergenze servono a instaurare uno stato d’eccezione che cancella la democrazia, dicono. Si sa che un orologio fermo ogni tanto ci prende sull’orario. Così è il pensiero critico. Tanto, il più delle volte nessuno va a chiedergli conto.

Eppure, basterebbe guardare al mondo in quel piccolo pezzo di vita che ci è consentito quando andiamo a fare la spesa. Niente, non c’è niente là fuori. Il tempo si è fermato. Rimangono accesi solo quei presidi destinati a tenerci in vita: i supermercati, le farmacie e gli ospedali. Altoparlanti montati sulle auto dicono di stare in casa a persone che ascoltano dalla finestra, del coprifuoco non si accorge nessuno, per strada niente militari, niente vigili urbani. I sindaci fanno gli sceriffi e i governatori invocano l’esercito, ma è solo propaganda.

In questo immenso vuoto che è stato il lockdown verrà, tra qualche settimana, avviata la fase 2. Sarà quello il momento in cui verificheremo il mutamento di paradigma. Il distanziamento sociale, che abbiamo vissuto come stando sott’acqua, diventerà ordinario. Non si tratterà più di fare un sacrificio per settimane. Si tratterà di mesi, anni. Fino a fare diventare strutturale il nuovo modo di vivere.

Dovremmo farlo ancora sotto il comando degli “uno” (il presidente del consiglio, il governatore, il sindaco)? Dovremmo abituarci a vivere sotto dittatura? Francamente, meglio morire di coronavirus. Ma possiamo sperare in una rinascita degli organismi della rappresentanza (parlamenti, consigli comunali)? Questi si sono eclissati nel momento del pericolo. Come potremmo fidarci? Vi fidereste di un compagno di cordata che nella bufera taglia la corda? Vi affidereste a un commilitone che in battaglia si rifugia in trincea? Dareste credito a un padre o a una madre incapaci di dare la vita per i figli?

Lontano dall’equilibrio possiamo renderci indipendenti, dare vita a nuove forme organizzative. Se il covid-19 è il virus della globalizzazione, veloce come lo sradicamento cui siamo sottoposti, le nuove istituzioni saranno territoriali. I sindaci, i governatori hanno dettato l’agenda politica degli Stati nazionali, mentre gli organismi sovranazionali manifestavano tutta la loro fragilità. Sono i territori che hanno resistito nella catastrofe. A partire da questi è possibile una nuova costituzione, un nuovo ordinamento, nuove forme di vita.

C’è un luogo dove si possono e si devono trovare le forme della decisione. Questo è la rete. Non è possibile pensare di rimandare la decisione collettiva al momento in cui gli assembramenti saranno nuovamente consentiti. La rete è stata in questo lockdown lo spazio di condivisione della conoscenza. Non siamo diventati tutti virologi come ieri eravamo allenatori della nazionale. Abbiamo, semplicemente, avuto tutti la possibilità di mettere insieme le nostre conoscenze. Siamo diventati tutti intellettuali. Non dobbiamo smettere di esserlo. Non dobbiamo tornare alla vita normale, quando personalità modeste nei Parlamenti o nei Consigli comunali decidevano delle nostre sorti. L’intelligenza collettiva deve diventare politica.

C’è un primo terreno dove misurare la capacità di essere noi il parlamento. Da dentro la Zecca di Madrid una banda di rapinatori ce l’ha insegnato. Ci vuole un piano, un esercito e il consenso per cambiare le cose. Il Piano è la ricostruzione. L’esercito siamo noi, la moltitudine di persone che in queste settimane ha comunicato per mezzo delle chat, dei social, degli sguardi dai balconi. Il consenso va costruito attraverso meccanismi di fascinazione. Bisogna strappare il futuro a chi ha devastato il passato. Bisogna che l’enorme massa di denaro di cui la società verrà inondata serva a rifondare le comunità locali, i luoghi dove le persone abitano, le loro produzioni, la loro sostenibilità. La fase 2 ci obbligherà a un maggiore legame con il nostro territorio. Facciamo che questo diventi un’occasione. Facciamo che la prossimità diventi la chiave di lettura del futuro. Costruiamone le istituzioni.

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