Flussi e territori
I flussi finanziari non sono cosa nuova. Né sono nuova cosa i territori. Ciò che è nuovo è il loro intreccio, la particolare conformazione del loro rapporto e i risultati che ne derivano. Nelle fasi espansive dell’economia capitalistica, quando il tasso di valorizzazione del capitale si mantiene alto, i flussi finanziari esterni (quelli, cioè, scaturiti dal ciclo della produzione) si indirizzano su altre attività produttive, più dinamiche e vantaggiose. In queste fasi di crescita i territori assumono l’aspetto di spazi della circolazione, vitali per il profitto capitalistico; il loro compito è di metabolizzare la merce il più velocemente possibile.
Il panorama si trasforma, invece, durante le fasi economiche contrattive, di crisi; in particolare, durante le crisi di sovrapproduzione. In questo contesto i flussi finanziari, incapaci di riversarsi nel ciclo produttivo (quanto meno nei settori a basso o medio valore aggiunto) si accumulano nel mercato del credito e da qui prendono la via dei territori alla ricerca di nuovi profitti. Con la contrazione del processo di valorizzazione, i territori divengono i primi destinatari dei flussi: nuovi spazi utili a colmare i vuoti della organizzazione industriale. Proliferano adesso “opere faraoniche” socialmente inutili, si erigono smart cities sempre più separate dai ghetti delle periferie, si diffondono le “aree economiche” a scapito delle produzioni endogene. La nuova economia dei flussi investe il territorio, gestendolo solo come fonte diretta di valorizzazione. Essa opera nel territorio, pur non essendo nata da una sua dinamica interna; in altre parole, i flussi recidono i legami tra il territorio e la sua forza economica, ne snaturano la capacità produttiva, la creatività, le difese ambientali, perfino le relazioni intersoggettive. L’economia del territorio deperisce per lasciare il posto a una economia diretta dalle “reti globali”; una riconversione che rappresenta il più duro attacco alle produzioni locali, ai sistemi di vita, alle forze produttive. Sotto il velo della modernizzazione il territorio subisce devastanti metamorfosi: viene trasformata la sua composizione di classe, la sua formazione culturale, i suoi ecosistemi.
Caratteristica del flusso finanziario è la sua versatilità, la capacità di penetrare nei territori come di uscirne, oscillando continuamente nello spaziotempo del territorio, seguendo proprie mappe geopolitiche e propri calendari di convenienze. Esso, come si viene a configurare nell’era della globalizzazione, include ed esclude simultaneamente persone, territori, forze produttive, attività economiche. La versatilità del flusso è legata in prima istanza al variare delle opportunità di profitto. Se da un lato il flusso provoca metamorfosi territoriali, dall’altro il suo ritiro, il “riflusso”, ha effetti devastanti, trascinando via anche le ultime, e ostinate, illusioni di modernità. La vitalità sociale, politica e culturale di un territorio è minacciata dal flusso finanziario, il quale lo trasforma per adattarlo ai suoi tempi e costringerlo nei suoi spazi. Ciò vale in assoluto, per la metropoli imperialista come per le fragili comunità di “dannati”; con la differenza, però, che nel secondo caso il danno e la devastazione si aggiungono ai guasti già esistenti.
È importante analizzare la natura del flusso finanziario, comprenderne i tempi di espansione e gli spazi in cui si insedia, studiarne la variabilità, la mobilità, la volatilità. Capire cosa è, come si muove, un flusso finanziario potrà certamente aiutare a comprendere il rapporto che esso intreccia col territorio. Nella geometria variabile delle “reti globali” del capitale multinazionale le comunità territoriali rappresentano l’elemento antagonistico. Come scrive Castells ne I due volti della globalizzazione dei mercati: “Le reti si adattano, eludono il territorio (o le persone), e si ricostituiscono da qualche altra parte, o con altre persone. Ma il materiale umano da cui dipende l’esistenza della rete non può cambiare altrettanto facilmente, e rimane invece intrappolato, degradato o sprecato. Il risultato di tutto ciò è il sottosviluppo sociale, proprio alle soglie dell’epoca potenzialmente più ricca di promesse di realizzazione per l’uomo”.
A tutto ciò bisogna aggiungere che l’adattamento, il dissolvimento e la riconversione delle “reti” costituisce una funzione connaturata alle politiche imperialiste. In Sicilia, negli anni del dopoguerra i flussi erano spinti da interventi diretti dello Stato e finalizzati all’industrializzazione; il compito, allora, era mediato da istituti come la Cassa per il Mezzogiorno o lo SVIMEZ. I flussi venivano smistati sui territori, con l’obiettivo di alimentare l’economia locale anche attraverso l’ampliamento della struttura industriale o il finanziamento di opere sovrastrutturali (edili, viarie, ecc). A partire dagli anni ’90, con lo smantellamento degli istituti di mediazione finanziaria, quei processi hanno cambiato volto. Lo smistamento dei flussi aveva luogo attraverso investimenti diretti nei comparti multinazionali, come quelli dell’agroalimentare, dell’informatica, della telefonia, della Grande Distribuzione Organizzata, del riciclaggio dei rifiuti, delle forniture d’acqua.
Nel corso dell’ultimo decennio, tra “bolle” finanziarie e crisi mondiale del credito, si è assistito a una progressiva regressione dei flussi finanziari dai “meridioni” del mondo; la Grecia è la prova più evidente degli effetti nefasti del “riflusso” finanziario. La ri-allocazione dei flussi, per esempio nel settore militare ad altissimo valore aggiunto, appesantisce ulteriormente le economie dei territori più deboli, fino a trasformare le forze produttive in un gigantesco esercito lavorativo di riserva. Nel particolare caso del territorio siciliano, e in considerazione della sua particolare collocazione geostrategica, il peso della neocolonializzazione è doppio: alla miseria per la tendenza sottrattiva dei flussi finanziari va aggiunta la crescita abnorme della militarizzazione e, dunque, dei flussi che su di essa convergono.
Le battaglie territoriali costituiscono il principale intralcio ai flussi finanziari, ostacolando il loro cammino all’interno dei territori.
Le “comunità per sé” si battono sottraendo spazi al capitale e al profitto. La lotta per separare il territorio dal capitale è l’aspetto che assume in questa fase la lotta di classe; una lotta necessaria a tutti i territori, ma ancor di più a quelli schiacciati dalle politiche neocoloniali. Come scrive il Marx della Concezione materialistica della storia, lo sviluppo delle forze produttive “non è subordinato a un piano complessivo di individui liberamente associati, ma muove da diverse località, tribù, nazioni, branche di lavoro, ecc., ciascuna delle quali all’inizio si sviluppa indipendentemente dalle altre”. Lo “sviluppo indipendente” delle formazioni sociali, dunque, prende spunto dalla contraddizione tra tutte le forze produttive (attive e potenziali) e la particolare relazione tra flussi finanziari e territorio; cioè, tra gli interessi del capitale e gli interessi vitali delle comunità.
Le “comunità per sé” lottano per liberarsi dall’assoggettamento all’imperio delle reti globali; l’indipendenza può darsi soltanto come annientamento di quell’imperio; la lotta per l’autodeterminazione è lotta di classe, di tutta la classe non di sue avanguardie o frazioni. Non una lotta che mira alla costruzione di “Stati indipendenti”, ma una lotta che fonda comunità capaci di amministrare la propria esistenza al di fuori della forma-Stato. L’indipendenza, nella sua accezione più genuina, o è abolizione della forma-Stato e della sua complicità con gli interessi multinazionali, oppure non è. La sua struttura istituzionale può rappresentare soltanto gli interessi del territorio e dei suoi abitanti; non una istituzione attraverso cui una classe impone la propria volontà a tutte le altre, ma una istituzione al servizio del territorio e di chi lo abita. Per tutte queste ragioni è sbagliato confondere la lotta di un popolo per l’indipendenza e la trasformazione dei rapporti sociali col nazionalismo – si tratta, in realtà, di due concetti diametralmente opposti. Il nazionalismo, per quanto autonomo, riproduce al suo interno le stesse forme istituzionali da cui si era separato; l’indipendenza territoriale, al contrario, ne produce di nuove. Le battaglie territoriali difendono gli interessi di una comunità, ricomponendo la lotta di classe sia nelle sue componenti soggettive, proletarie, sia nelle sue componenti tematiche che coinvolgono in primo luogo i rapporti tra l’uomo e gli spazi della sua sopravvivenza. Lo sfruttamento neocoloniale delle risorse, l’immiserimento, il lavoro non pagato, l’emigrazione, la denigrazione politica e culturale, spingono sempre di più ad una lotta aperta per l’indipendenza e l’emancipazione. Solo se la liberazione dei territori dal capitale ha luogo per volontà popolare, allora porta con sé il riconoscimento e la promozione di ideali universalizzanti. La lotta di liberazione territoriale, sviluppatasi come lotta contro la disgregazione economica causata dal neocolonialismo delle reti globali, avvia un processo di emancipazione dal dogma del capitale e apre la strada ai valori di nuova umanità.