Il bandito Giuliano: 70 anni fa veniva ucciso. Una bugia di Stato
«Noi siamo tristi, è vero, ma ci hanno sempre perseguitati; i galantuomini si servono della penna e noi del fucile, essi sono i signori del paese e noi della montagna».
Un vecchio brigante.
Il 5 luglio del 1950, a Castelvetrano, esattamente 70 anni fa, moriva Salvatore Giuliano. Una morte avvolta da mille misteri. Una cosa è certa: Turiddu fu un bandito siciliano che decise di non sottomettersi e unirsi agli oppressori. Nascosto nelle montagne di Montelepre, e nelle colline siciliane, Giuliano e la sua banda sfidarono apertamente l’ordine costituito, contro le ingiustizie dello Stato e dei suoi organi repressivi.
La notte del 4 luglio ’50. La versione di Gaspare Pisciotta
I primi di luglio, Gaspare Pisciotta, il braccio destro del bandito Giuliano, torna a Castelvetrano. Si era già messo d’accordo con un ufficiale del Comando delle forze di repressione del banditismo. Chiedeva impunità e taglia. Il colonnello Ugo Luca stava preparando già i conti: 30 milioni a Pisciotta, altri milioni ai suoi uomini e altri milioni per gli uomini che avrebbero tenuto i collegamenti con Pisciotta a Castelvetrano.
La notte del 4 luglio Giuliano è morto. Nel sonno, forse senza nemmeno accorgersene. Pisciotta era riuscito a mettere qualche goccia di narcotico nel caffè del famigerato bandito siciliano. Mentre Giuliano dormiva, Pisciotta era coricato nella stanza accanto fingendo di dormire. Quando ebbe la certezza che il capobanda si fosse addormentato definitivamente, si avvicinò tenendo la pistola dietro la schiena e poi sparò due colpi: uno alle spalle; il secondo, immediatamente dopo, sotto l’ascella. Dopo l’esecuzione scappò verso una millecento dei carabinieri e salito a bordo dell’automobile si allontanò in direzione di Palermo.
La versione dello Stato italiano
Il cadavere del bandito Giuliano era stato portato nel cortile e colpito con una raffica di mitra. Ovviamente il colonnello Luca diede una versione capace da un lato di dissimulare l’impotenza degli organi repressivi, dall’altro di coprire sia i confidenti che Pisciotta. La versione ufficiale diceva che a Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida avevano riconosciuto da lontano il capobanda.
Giuliano era stato inseguito per le vie della città. Contro di lui era stato aperto il fuoco ripetutamente; un proiettile lo aveva raggiunto alla spalla. Il bandito avrebbe risposto a sua volta con la pistola e con il mitra. Giunto in via Mannone, il brigante aveva sperato di trovare scampo entrando in un cortile e là, sarebbe stato freddato con una raffica di mitra dal capitano.
Una bugia di Stato
La mattina, davanti all’ingresso del cortile, in fondo al quale giaceva il cadavere del brigante, era steso un cordone di polizia, per impedire ai curiosi di osservare il cadavere. Nonostante ciò, tantissime persone ebbero modo di entrare e di guardare da vicino il morto, le chiazze di sangue, le armi abbandonate a terra.
La maggior parte delle persone tornando sulla via, non riuscivano a nascondere i propri dubbi. Era proprio lo scenario dell’ultimo atto di un dramma, che segnò la fine di uno dei più grandi banditi di tutti i tempi. D’altronde si sa, la fine tipica del bandito avviene per meschino tradimento e la polizia, come attesta un diffuso detto, spara sul cadavere.
Sulla morte di Giuliano esistono molteplici versioni, tutte diverse tra di loro. La morte del bandito è stata oggetto di segreto di Stato fino al 2016, mentre la riesumazione è avvenuta il 28 ottobre 2010. L’esame del DNA e gli accertamenti medico-legali hanno confermato che i resti sepolti nella tomba della famiglia Giuliano appartengono realmente al bandito e quindi l’inchiesta è stata ulteriormente archiviata.
Fatto sta che Salvatore Giuliano, a conoscenza di impronunciabili verità, scomparì stranamente al momento giusto, quando la sua fama e i suoi legami ad altissimo livello erano divenuti troppo scomodi per chi gestiva il potere.