Le uniche campagne sono quelle territoriali.
Nell’avvicinarsi di scadenze elettorali per il rinnovo di importanti istituti amministrativi, distretti, comuni, regione, desideriamo motivare alcune nostre opinioni in merito. A scanso di equivoci, confermiamo di essere favorevoli (non solo in via teorica) alla eventualità che uno o più territori possano essere conquistati all’indipendenza e guidati da politiche popolari e anticoloniali. Disporre anche solo di un sindaco capace di amministrare la volontà del popolo che rappresenta costituisce certamente un importante traguardo tattico, a cui non si può che guardare con simpatia; figuriamoci! Tuttavia, perché ciò accada occorrerebbe un fronte indipendentista ampio e popolare, radicato tra la gente, nel territorio; la qualcosa al momento non è data, se non vogliamo confondere il movimento indipendentista che rinasce in Sicilia per una ennesima caricatura di consorteria politica.
Pertanto, rispettiamo gli sforzi che al momento alcune forze indipendentiste fanno per inserirsi nell’agone politico, auguriamo loro buonissima fortuna, ma diciamo anche che sbagliano, che il loro gioco non vale la candela. Un errore di calcolo, tanto per cominciare: a che pro bruciare energie personali, tempo e denaro quando si è sicuri di cogliere, qualora si andasse a vele spiegate, qualche fruttino sparuto; si farà presto a fagocitare o mettere a tacere quel “fruttino sparuto” e nulla sarà cambiato. Ancor più grave l’errore politico, derivante dal fatto che coinvolgere i pochi indipendentisti attivi sul territorio in una battaglia senza via d’uscita è, quanto meno, un gesto autolesionista; e, in quanto tale, sottrae anziché sommare.
Certo è, invece, che quelle energie darebbero più frutti se fossero spese per promuovere e diffondere il bisogno di Indipendenza tra la gente; un bisogno che l’atto di delega, implicito nel voto, il più delle volte affievolisce. Più frutti quelle energie darebbero se fossero spese, per esempio, in difesa dei movimenti di resistenza territoriale, che a macchia d’olio spuntano in vari angoli dell’isola – dai No G7 ai No discariche, dai No triv ai No Muos; movimenti di resistenza che raccolgono la rabbia popolare contro le “dinamiche dei flussi finanziari” o, per dirla chiara, contro la devastazione sociale, ambientale, economica e culturale che caratterizza i programmi del capitale multinazionale sul territorio. Attraverso quei movimenti di difesa territoriale parlano popolazioni, quartieri, ceti sociali precarizzati, studenti, operai. L’orizzonte indipendentista non può non comprendere queste realtà, non può non accoglierne i contenuti; l’Indipendenza o è liberazione dal giogo del capitale finanziario, o non è; o porta tutti fuori dalla civiltà fondata sul sopruso, sull’oppressione e sullo sfruttamento, o non è.
Per questo siamo poco interessati all’elettoralismo fine a se stesso, condannato alla sconfitta. Una domanda tra tante: davvero importano mille, o duemila, o cinquemila voti quando la posta in gioco è così alta? Possiamo mai paragonarli a mille, duemila, o cinquemila indipendentisti attivi nella difesa e nella liberazione del territorio siciliano? Purtroppo, è ancora diffusa l’idea che il campo di battaglia elettorale sia l’ultimo depositario, l’ultima sponda, di ogni altra battaglia. È vero il contrario. Il consenso si raggiunge stando dentro la resistenza territoriale, appoggiandola, incoraggiandola, alimentandola.
Sfuggire alle tematiche generali, alle prospettive strategiche, per occuparsi di “cose concrete”, ha sempre garantito ai ceti medi di mantenere posizioni di privilegio, di non mettere in discussione i vantaggi ottenuti dalla relazione di classe. La Sicilia postfordista, però, ha distrutto molti di quei vantaggi, molte di quelle posizioni di privilegio, e con questo una larga parte di quei ceti medi torna a rivendicare l’Indipendenza, magari a risarcimento dei “torti” subiti. Il disorientamento del ceto medio siciliano è notevole e si accresce, attizzato dalla crisi; nel generale disorientamento qualcuno tira fuori la carta dell’Indipendenza… ma bisogna che non la giochi male. Resistere alla rovina del territorio e dei suoi abitanti: è così che ci dobbiamo giocare quella carta. Solo prendendo le redini della resistenza territoriale, il movimento popolare indipendentista tutto può tornare ad orientarsi, non nell’avvilimento di una competizione che sa già di perdere.