Sette giorni e mezzo ‘mPalermu.
Che forse bisogna partire dalla fine per spiegare l’inizio, come succede quando devi tirare il filo di una matassa, e vuoi spiegare le cose. Che le cose sono la settimana di eventi e iniziative e cortei organizzati dal 16 al 22 settembre per ricordare la rivolta del 1866, la Comune di Palermo.
E la fine è stato il corteo che ha attraversato Borgo Vecchio fino all’Ucciardone. C’erano i militanti dei centri sociali – questa dannata associazione a resistere – certo: sono loro che hanno organizzato tutta la cosa. E Antudo. Ma c’erano donne che hanno i loro mariti e padri e fratelli dentro quel maledetto carcere, e ragazzini, tanti. Dal piglio malandrino e dal sorriso sghembo, svelti di mano e di cervello. Battevano le mani, quei ragazzi, e agitavano i loro fumogeni colorati, verso gli uomini che si affacciavano tra le sbarre per salutare il corteo. Forse pensavano che un giorno ci potrebbero finire anche loro lì. Perché questa è la legge del mondo: se nasci nel quartiere sbagliato, finisci all’Ucciardone. Ma oggi erano in piazza in un corteo, a battere le mani e a gridare slogan, forse era la loro prima volta, a provare a rovesciare la legge del mondo, perché poi a cosa serve l’impegno politico se non a cambiare le cose. E le persone. Chiedeva Amnistia, quel corteo, e condizioni decenti in carcere. Chiedeva che i detenuti possano scontare il loro carcere vicino le proprie famiglie, e che madri, mogli, sorelle non siano costrette a girare come trottole lontano dalla Sicilia per portare un pacco e un saluto – che ci vogliono soldi per queste cose. Chiedeva, quel corteo, di ricordare la battaglia dell’Ucciardone durante i giorni della Rivolta.
Gli storici dicono che forse fu quella la battaglia determinante, che se i rivoltosi avessero preso l’Ucciardone forse le cose sarebbero cambiate, perché ne uscivano uomini pronti alle armi e pronti a tutto. Chissà se è vero. Certo è che Turi Miceli, un omone che incuteva rispetto, che aveva combattuto nel 1848 e nel ’60, ci aveva dato parola a quelli di dentro – e c’erano molti compagni suoi, il Badia, a esempio, di un tentativo fatto l’anno prima – che se fosse scoppiata una rivolta la prima cosa era che veniva a liberarli. E ci si accanì contro quelle mura. E ci lasciò la vita, al terzo giorno, colpito da una scarica di cannone che veniva dal mare. Noi, quel nome, ce lo siamo segnato: Turi Miceli, chi purtau spaventu, e scendeva da Monreale. Perché noi, i nomi, ce li siamo segnati tutti.
Di quelli ammazzati e di quelli arrestati, di quelli costretti all’esilio, che la repressione fu brutale. Se n’è parlato, in un incontro organizzato alla Sala Rostagno del Comune, insieme all’autore, Rino Messina, di un libro sull’argomento: “La repressione postuma. Palermo 1866: una rivolta breve e il suo epilogo giudiziario”. S’è studiato le carte, Messina, e enumera dati, fatti, sentenze. La sala era piena, e il dibattito è stato vivace, appassionato. Perché la storia brucia ancora – di quella rivolta si fece tutto perché non se ne parlasse più – e a disseppellirla da dove l’hanno nascosta ci vogliono mani forti.
A disseppellire quella storia ci ha pensato anche una bella mostra di materiali organizzata dal Centro Zabùt: foto, giornali del tempo, disegni, proclami – tutto materiale reperito negli archivi, con fatica, perché queste cose sono ormai abbandonate ai topi e all’incuria. È la prima volta che si organizza una mostra sul 1866. Come se averne memoria fosse una colpa, come se ricordare l’insurrezione di Palermo fosse una vergogna da nascondere. Noi ricordiamo. Noi vogliamo che le nuove generazioni sappiano su quali strade camminano.
Per questo decine e decine di bambini dei quartieri hanno assistito a uno spettacolo dei pupi al magnifico Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino offerto dalla Fondazione Buttitta: «Signori e cavallier che ve adunati / Per odir cose dilettose e nove / Stati attenti e quieti, ed ascoltati / La bella istoria che ’l mio canto muove». Ah, come sono stati attenti – quieti, no, che urlavano e ridevano alle imprese di Orlando e Angelica e re Carlo – quei bambini dello Zen, di San Filippo Neri e di Borgo Vecchio, per molti di loro era la prima volta che vedevano i pupi, e Orlando e Rinaldo che si prendevano a spadate. Eppure, la lingua nostra è intessuta di queste storie, e i loro nonni – non mill’anni fa – questi spettacoli li vedevano e ci si appassionavano. Noi ricordiamo.
La nostra lingua, le nostre musiche, i nostri balli. Ci si era dati appuntamento per una serata di musica e danze siciliane a piazza Bologni con Sara Romano, Angelo Daddelli e i picciotti, Rosa, Debora Troìa, ma non avevano concesso l’autorizzazione accampando motivi di ordine pubblico, come se Palermo fosse ormai una città militarizzata. Sciocchini. L’appuntamento si è trasformato in una parata che guidata da zufoli e chitarre e tamburi ha attraversato il centro della città, suscitando la curiosità, l’interesse e l’attenzione di tutti: provate a fermare i nostri canti, provate a fermare la nostra musica. Il concerto si è tenuto lo stesso, in via San Basilio, all’exKarcere. E si è ballato, e si è cantato. Alla faccia di chi ci vuole male.
E lì si era anche mangiato, alla faccia di chi ci vuole male: una serata, organizzata insieme ai produttori della rete Simenza, con esposizione dei prodotti, dalla pasta di grani antichi siciliani alla ricotta, dal miele alle marmellate al vino, rappresentando vari territori della “Biodiversità siciliana”. E si è fatta la pasta fresca insieme, ripetendo gesti antichi, semplici e sapienti, che poi si è mangiata la sera alla cena sociale.
Ecco, forse è questo il filo della matassa, il capo da tirare per capire questa settimana di eventi sul Sette e mezzo: la socializzazione di una rivolta. Ricordare quello che è accaduto provando a calarlo nel presente. Le ragioni di una insurrezione – contro uno Stato ostile – e le ragioni di una ostinata resistenza.
La memoria è il nostro filo, il capo della matassa. Ricordiamo tutti quelli che hanno combattuto per la libertà in Sicilia, i nomi di quelli ammazzati e di quelli condannati, di quelli costretti all’esilio. Quelli di Palermo 1866 e quelli dei Fasci siciliani del 1894 – Rosario Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, e tant’altri. Quelli di Palermo 1866 e quelli della lotta per le terre tra il 1945 e il 1950 – Giuseppe Maniaci, Placido Rizzotto e tant’altri – e quelli di Portella – Giovanni Megna, Vito Allotta, Vincenza La Fata, Giovanni Grifò e tant’altri. Quelli di Palermo 1866 e quelli di Avola, 2 dicembre 1968, Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona. E tant’altri. Tutti gli altri.
Noi, i nomi, ce li siamo segnati tutti.
E li ricorderemo, uno per uno.
Antudo.