Doveva andare tutto bene, e invece…
«Tu ci chiudi, tu ci paghi» – questo è lo slogan che sta infuocando le strade di molte città italiane e, in particolare, meridionali. Passati ormai otto mesi dal lockdown, è evidente che il governo della crisi ha colpito principalmente chi già prima dell’emergenza viveva una situazione di precarietà economica. Le piazze di questi giorni non sono altro che la prima risposta di massa alle politiche di impoverimento degli ultimi anni. La crisi dovuta al Covid-19, soprattutto al Sud, ha acuito una crisi economica e sociale che dal 2008 a oggi si è andata aggravando.
Il governo nazionale in seguito al lockdown ha provato a mantenere una situazione di pacificazione con bonus, indennità e simili; ma le presunte misure di sostegno economico alle famiglie, alle piccole imprese, alle partite iva – e ai lavoratori in generale – non sono state sufficienti neanche ad attutire il colpo. In molti casi questi aiuti non sono nemmeno arrivati. Così come non è stato bloccato il pagamento di utenze e affitti.
Sarebbe dovuto andare tutto bene, e invece…
Invece, anche dopo il lockdown, la ripartenza – per chi è riuscito a ripartire – è stata tutta in salita. Nei fatti in Sicilia e nel Mezzogiorno questa non c’è mai stata. A guardare le ultime previsioni SVIMEZ in materia, sono proprio le tre regioni settentrionali (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) più colpite dalla pandemia e dai suoi effetti a breve termine a mostrare i segni di una ripresa economica assistita mentre Regioni come la Sicilia registrano una ripartenza “frenata”. In più l’aumento della disoccupazione si accompagna all’aumento esponenziale della povertà.
Gli ultimi decreti del presidente del consiglio – e non solo quelli di maggio e giugno – che chiudono palestre, locali, centri benessere, cinema, teatri, bar, ristoranti e pub, sembrano scritti per favorire l’industria a tirare dritto. Non ci pare che ci sia stato qualcuno del governo che si sia permesso di accennare alla possibilità che anche nei magazzini, nelle fabbriche, nei supermercati, nei centri commerciali, ci fosse la possibilità di contagiarsi e di diffondere il virus.
Ve lo immaginate Conte che in conferenza stampa dice: «diamo una settimana di tempo alle industrie per adeguarsi alle norme di contenimento del contagio altrimenti le chiudiamo»? Noi no. Anche in questo caso la scelta su cosa chiudere è stata ponderata in funzione della difesa di interessi particolari e di particolari territori.
La risposta alla crisi è la piazza
A subirne maggiormente le conseguenze sono le attività che rappresentano la quasi totalità del tessuto produttivo di città come Napoli, Palermo, Messina, Catania. Che rappresentano il cuore del tessuto produttivo del Mezzogiorno.
Doveva andare tutto bene e invece fino a ora è andata bene solo a coloro a cui andava bene già prima. Non è un caso se i ricchi hanno aumentato le loro ricchezze. Evidentemente la crisi non è per tutti e questo è stato permesso anche da misure come quelle del 24 ottobre. Questa volta però c’è stata una risposta forte, massificata e diffusa. A partire dalla notte del 23 ottobre a Napoli, le piazze degli ultimi giorni sono state espressione del crescente malcontento. A Palermo, come a Catania e a Siracusa, migliaia di persone si sono riversate in strada. Tu ci chiudi, tu ci paghi: è questo il coro che risuona da una parte all’altra della Sicilia. «Chiudere sì, ma ci vogliono aiuti economici immediati per campare». Questa è l’espressione che si sente ripetere spesso durante le manifestazioni.
Dopo i recenti provvedimenti del governo si può dire che le piazze abbiano imposto una parziale distribuzione di risorse verso il basso. Risorse che fino al giorno prima erano destinate alle tasche dei soliti. Il governo aveva detto che questa volta non avrebbe distribuito ristori, ma alla fine – anche se in maniera insoddisfacente – è stato costretto a farlo.
Il governo cambia idea
Queste manifestazioni hanno fatto cambiare direzione alla linea del governo. Molto ancora si può fare, ma questo, nonostante gli opinionisti disfattisti, è un fatto oggettivo. E’ un caso se tutto è partito da Napoli e dal Sud? No, ovviamente no! Ed è anche ovvio che la non casualità di questo non è dipesa né dalla camorra, né dal tifo organizzato, né da Forza Nuova. Chi vuole vedere questo o è in mala fede e vuole delegittimare le proteste e ridurne la forza. Oppure fa parte della categoria di quelli che piuttosto che sporcarsi le mani con le contraddizioni che – chiaramente – esistono in queste piazze, utilizza giustificazioni politiche per non misurarsi con la complessità che incarnano.
L’esplosione di rabbia degli ultimi giorni ha radici lontane nel tempo, precedenti all’esplosione della pandemia, e deriva da una distribuzione della ricchezza che penalizza chi lavora e fa sacrifici.
Ovviamente ci riferiamo anche agli autonomi, ai liberi professionisti e alle partite iva, al mondo dell’artigianato, dell’agricoltura, della cultura e dello spettacolo. Settori e soggetti sociali ed economici che fanno parte di quel pezzo di ceto medio che negli ultimi 20 anni, soprattutto in Sicilia, si è fortemente impoverito. Ad esplodere è stata la rabbia di tutti questi. E con la loro rabbia hanno fatto saltare il tappo.
Chi dovrà pagare i costi della crisi?
Lo Stato italiano, i governatori delle regioni del Nord, i loro amici industriali vogliono far pagare la crisi – ancora una volta – sempre agli stessi settori della società, sempre agli stessi territori. Ormai si tratta di una ribellione per campare, per la dignità. La battaglia che si sta combattendo è per riprendersi gli spazi minimi di sopravvivenza ed è pura fantasia ritenere che la ribellione si fermi qui. Doveva andare tutto bene e invece….