Hong Kong: ordine e repressione. L’indipendenza va difesa
Dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale, le uniche parole d’ordine a Hong Kong sono «ordine» e «repressione». Ma il movimento non molla.
Era il 30 giugno 2020 quando a Hong Kong venne approvata la legge sulla sicurezza nazionale. Non un semplice atto legislativo di unità nazionale, ma un vero e proprio braccio teso per le libertà civili dei cittadini dell’ex colonia britannica e di migliaia di attivisti e militanti separatisti. Nonostante la repressione, la rabbia degli abitanti non si è placata e le proteste a Hong Kong, per il diritto all’autodeterminazione, non si sono fermate. Scontri; più di 300 arresti; tutti accusati di aver violato la legge sulla sicurezza. Tra questi, anche chi, durante le sommosse, sventolava la bandiera per l’indipendenza di Hong Kong – accusati di sedizione e separatismo. La norma punisce gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nell’ex colonia britannica.
Spegnere le fiamme della resistenza
Per Pechino si è trattato di un passo necessario per riportare «l’ordine» in città dopo le proteste iniziate nel 2014 – la Rivoluzione degli ombrelli – fino a quelle del 2019-2020. Sono anni che hanno segnato un passaggio cruciale per il movimento pro-democrazia e gli indipendentisti.
Un passaggio cruciale perché – negli ultimi due anni – i manifestanti di Hong Kong sono stati i protagonisti di un processo politico in atto in tutto il pianeta. È il desiderio di liberazione dal dominio degli Stati nazionali, dall’oppressione che viene fuori, dalle violenze della polizia che impongono l’ordine, dalla crisi sociale e politica. Questo processo assume forme diverse a seconda della storia, della composizione sociale, della cultura politica e dei processi di urbanizzazione dei vari territori.
Nelle comunità del Sud America si traduce nella sottrazione al dominio dello Stato – in Chiapas dal dominio dello Stato messicano; nei territori curdi si esprime nelle forme del confederalismo democratico; in Europa (Catalogna, Irlanda, Scozia, Paesi Baschi) assume il carattere politico della creazione di nuove istituzioni, di nuova statualità. A Hong Kong assume il carattere della resistenza nei confronti dell’autoritarismo cinese.
È un processo che spaventa perché è direttamente espressione popolare di autodeterminazione, ragion per cui viene represso – con ogni mezzo – dallo Stato e dai suoi organi repressivi.
Sorvegliare e punire: gli arresti
Il capo della sicurezza di Hong Kong, John Lee Ka-chiu, ha affermato che «gli arresti sono “necessari” e rivolti ai gruppi di persone che hanno cercato di far sprofondare Hong Kong in un abisso». Retate e perquisizioni negli appartamenti: dal giugno 2019 oltre 10mila persone sono state arrestate. Sono migliaia di cittadini, tantissimi giovani, studenti e universitari con un sogno nel cuore: quello dell’indipendenza.
La pandemia da Covid-19 ha di sicuro posto un freno alle rivolte degli «ombrelli gialli», il numero dei manifestanti è diminuito e la polizia senza indugio ha utilizzato le leggi sul Coronavirus – che vietano gli assembramenti – per disperdere i manifestanti che cantavano le ultime proteste.
La repressione, dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza, non si è mai arrestata. Soltanto nella scorsa settima, si sono registrati 53 arresti. Tutti politici, leader e attivisti dell’opposizione. Mille poliziotti hanno portato avanti e concluso una grande retata, l’accusa è di «sovversione», il rischio è l’ergastolo.
Un record di arresti
«Questi soggetti avevano cercato di rovesciare il governo della città con un piano malefico» – ha detto il segretario alla Sicurezza di Hong Kong. I 53 attivisti sono tutti i candidati del fronte democratico. Sembra chiaro, dunque, il tentativo di chiudere i conti con chiunque avesse lavorato al progetto politico di resistenza all’autoritarismo del governo filo-cinese.
Altri 11 attivisti sono stati presi oggi all’alba. Questi – sospettati di aver aiutato una dozzina di cittadini di Hong Kong in fuga a Taiwan – sono accusati di «cospirazione». Gli arresti delle ultime settimane si aggiungono al maxi blitz che sta stroncando il fronte democratico.
Tra i metodi utilizzati dalla polizia per identificare i manifestanti viene impiegata la tecnologia Clearview. Le immagini acquisite dagli organi della polizia vengono caricate sul programma che le confronta con più di 3 miliardi di foto acquisite da milioni di siti web tra cui Facebook, Youtube e Twitter. In questo modo la nuova tecnologia diventa uno strumento perfetto per scovare e reprimere i dissidenti. Nonostante i manifestanti del ”porto profumato” abbiano imparato negli anni a utilizzare applicazioni che possano garantire loro l’anonimato, la persecuzione è forte e grava sugli attivisti, sui militanti di movimento e sui rivoluzionari separatisti.
Hong Kong non chiuderà mai gli ombrelli
Ogni qual volta in un periodo storico avvengono tentativi di ribaltamento delle istituzioni politiche dominanti, ecco che l’autorità statale ha il bisogno di mantenere intatte le forme di potere e sfruttamento. I mezzi repressivi sono molteplici e terranno alle strette, almeno per un po’ di tempo, il movimento di Hong Kong.
C’è chi sostiene che l’approvazione della legge sulla sicurezza è stata la fine del porto profumato. Tra questi, c’è chi aggiunge che Hong Kong ha già chiuso gli ombrelli gialli.
Ma i rivoluzionari controbattono. Il primo passo è quello di svincolarsi dalla paura del fallimento e dall’etichetta di ”perdenti” affibbiata dai nemici reazionari. «I giorni a venire saranno duri ma resteremo lì, non molleremo» ha affermato Joshua Wong – il leader degli attivisti pro-democrazia condannato a 13,5 mesi di reclusione per “incitamento, organizzazione e partecipazione a manifestazioni illegali”.
Fin quando ci sarà il desiderio di indipendenza, il popolo non smetterà mai di lottare. Hong Kong non ha chiuso gli ombrelli. Il popolo di Hong Kong si sta preparando ad accogliere il fulmine che aprirà il cielo alla rivolta.