La minaccia trivelle in Sicilia
Con la fine dello stop alle trivelle ritorna il pericolo delle multinazionali per i territori siciliani.
Sono passati esattamente due anni dalla grande manifestazione contro le trivelle tenutasi a Licata il 12 gennaio 2019. Allora, in migliaia si recarono nella cittadina dell’agrigentino da tutta la Sicilia per opporsi alla realizzazione del progetto Offshore ibleo di Eni. Il programma era finalizzato alla riapertura di due giacimenti marini siti a distanza di pochi chilometri dalle coste di Licata e alla realizzazione di un gasdotto collegato direttamente alla raffineria di Gela. I siciliani e le siciliane avevano detto no a ogni tipo di progetto come questo e, più in generale, al modello di sviluppo imposto da Eni in Sicilia. Due anni dopo, il governo ha riaperto la partita su nuovi permessi.
Che fine ha fatto lo stop alle trivelle?
Nel 2018 è stato adottato il blocco delle trivelle, poi prorogato nel 2019. Era stato indetto nell’attesa che il governo adottasse un Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee, ovvero una mappatura precisa delle aree idonee allo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale.
Nell’intervallo di tempo che intercorre fra l’avvio dell’iter burocratico e l’adozione del Piano è stata dunque disposta la sospensione dei procedimenti relativi al conferimento di nuovi permessi di prospezione o di ricerca, vietata la presentazione di nuove istanze di concessione di coltivazione e interrotta l’attività di prospezione o ricerca di idrocarburi in corso di esecuzione.
Di quel piano, che doveva essere presentato entro il 13 febbraio 2021, oggi non c’è traccia. Così come è scomparso il blocco alle trivelle dal decreto Milleproroghe di fine 2020. I 5 Stelle sostenevano che sarebbe stata emanata una norma ad hoc per bloccare una volta e per tutte le nuove autorizzazioni. In assenza di moratoria, il 13 agosto 2021 (data in cui termina la sospensione dei procedimenti amministrativi) si dovrà tornare a concedere permessi di ricerca e nuove concessioni di coltivazione.
Via alle istanze di permessi di ricerca in Sicilia
Come si evince dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, sono 84 le istanze di permesso di ricerca attualmente presentate. Con un permesso di ricerca, oltre all’acquisizione di dati geofisici, è possibile effettuare uno o più pozzi esplorativi. Nel caso venga individuato un nuovo giacimento, l’operatore può presentare un’istanza di concessione di coltivazione che, una volta conferita, consente la messa in produzione del giacimento stesso.
Molti dei permessi risultano essere solo in attesa di via per iniziare la ricerca di idrocarburi. In mare le richieste pendenti sono tutte concentrate tra l’Adriatico e il Canale di Sicilia: davanti alla costa tra Gela e Licata ha presentato richiesta la società inglese Northern Petroleum e due richieste le hanno presentate Eni ed Edison in società. Un altro permesso è stato richiesto dalla piemontese Audax Energy nell’area tra Pantelleria e Favignana. Per quanto riguarda la terraferma, in Sicilia le richieste sono 11: l’Eni chiede di fare ricerche tra Modica e Ragusa, ma anche nella piana di Vittoria, nella zona tra Caltagirone, Gela e Mazzarrone e sulle Madonie nell’area di Petralia Soprana; la Mac Oil ha presentato domanda di ricerca tra Enna, Caltanissetta e Agrigento; il gruppo Alcanna Italia nella zona del Belìce. Per quanto riguarda le istanze di concessione di coltivazioni tre sono ubicate in Sicilia. Due di queste le ha presentate sempre Eni, una tra Ragusa e Modica e l’altra nei pressi di Gela, mentre la terza, della società Petrex Italia, è sita tra Acate e Vittoria. Nell’ambito di una concessione di coltivazione possono essere svolte tutte le attività inerenti la produzione di idrocarburi per un periodo di vigenza che può arrivare a 40 anni.
In realtà, nel caso della Sicilia la storia è un po’ diversa. Infatti per la sola terraferma, in virtù dello statuto speciale della Regione Siciliana, la competenza normativa e amministrativa è completamente autonoma. Per questo, quando nel 2019 la Regione aveva autorizzato la realizzazione di tre nuovi pozzi esplorativi nell’area interessata dal permesso di ricerca Fiume Tellaro (già vigente prima della sospensione) e rilasciato un nuovo permesso di ricerca Case La Rocca, il Ministero dell’Ambiente non ha potuto fare nulla per fermarla.
Insomma, si prospettano sviluppi per la questione trivelle in netto contrasto con la propaganda fatta sulla rivoluzione verde negli ultimi mesi e con gli obbiettivi che l’Italia finge di prefiggersi.
Chi ci guadagna?
Per concludere il quadro sulle trivelle si potrebbe poi trattare il tema delle royalties, il contributo che le compagnie petrolifere sono tenute a versare per l’estrazione di idrocarburi. Per normativa europea, i giacimenti petroliferi non possono essere venduti alle compagnie. Lo Stato cede quindi in concessione i giacimenti e le compagnie pagano una percentuale fissa sul petrolio estratto allo Stato. Nelle regioni a statuto speciale le royalties vengono incassate dalla Regione, che può anche decidere la percentuale che le compagnie devono versarle. Ad oggi, in Sicilia le compagnie pagano circa il 20% del valore del petrolio che estraggono, quota tra le più basse d’Europa. Secondo normativa le compagnie sono però esenti dal pagare se la produzione annuale non supera le 50mila tonnellate estratte a mare e le 20mila a terra. Grazie a questa clausola, in Sicilia ci sono impianti molto poco produttivi, ma molto convenienti per le grandi compagnie petrolifere. Dal 2010 al 2017, su 7,9 milioni di tonnellate estratte circa 1,8 milioni sono risultate esenti dal gettito delle royalties poiché provenienti da impianti che producono al di sotto di queste cifre.
Insomma, i siciliani non solo devono subire i danni ambientali causati dalle trivelle, ma devono anche accettare che da questa aggressione ai territori la Regione non ottenga alcun ricavo economico, restando così con le tasche vuote e l’amaro in bocca.