Gualtieri Sicaminò (ME): «Fermare la demolizione del borgo»
Qualche giorno fa è iniziata la fase di demolizione del borgo di Sicaminò all’interno del comune di Gualtieri Sicaminò (ME) che dovrà portare al «recupero e risanamento conservativo di unità edilizie di proprietà comunale da destinare a unità ricettive».
Lo spopolamento e la cancellazione dell’identità
Gualtieri Sicaminò fa parte della lista dei comuni siciliani che hanno vissuto il drammatico fenomeno dello spopolamento. Infatti, attualmente, il borgo nella provincia di Messina, è praticamente disabitato. Non è quindi risultato difficile proporre e portare avanti un progetto che a prima vista non sembra avere niente a che vedere con il risanamento per la difesa e la valorizzazione dell’area che viene classificata come «zona urbana di interesse storico e di particolare pregio ambientale». Al posto dei palazzi storici verrà realizzato un albergo diffuso con tanto di sala congressi, bar/ristorante e unità residenziali nella forma di piccoli appartamenti e singole camere con servizi annessi. Un tentativo che disintegrerebbe la memoria storica di quel borgo. Dopo lo spopolamento, significherebbe la cancellazione definitiva della sua identità.
Il mancato coinvolgimento della comunità
Quello di realizzare un polo turistico all’interno del centro storico di Gualtieri Sicaminò era un obiettivo che le amministrazioni rincorrevano già da anni. La comunità, però, non ha gradito le modalità con cui si sta realizzando questa riqualificazione e lamenta il mancato coinvolgimento nelle decisioni.
Il sindaco ha risposto in una lunga lettera in cui, tra le altre cose, giustifica il mancato coinvolgimento a causa delle restrizioni anti-Covid. Ma la sostanza è ugualmente agghiacciante. Stanno cancellando un borgo, la sua storia, la sua identità per mettere in piedi un polo turistico che niente ha a che vedere con il contesto in cui sorgerà.
Abbiamo ricevuto la lettera di un cittadino che riportiamo interamente qui di seguito.
Per evitare di cadere in bagarre politiche, che non mi riguardano (e non mi interessano), vorrei superare ogni tipo di faziosità ed espormi esclusivamente in merito alle vicende accadute e ai temi da queste evocati.
«Se dal punto di vista del riconoscimento dell’opera d’arte come tale, ha preminenza il lato artistico, all’atto che il riconoscimento mira a conservare al futuro la possibilità di quella rivelazione, la consistenza fisica acquista un’importanza primaria. Seppure il riconoscimento debba avvenire ogni volta nella singola coscienza, in quel momento stesso appartiene alla coscienza universale, e l’individuo che gode di quella rivelazione immediata, si pone immediatamente l’imperativo, categorico come l’imperativo morale, della conservazione»
Bastano queste poche righe tratte dal libro Teoria del restauro di Cesare Brandi del 1963 per allontanarci dal caos e dal polverone delle ruspe, creare un momento di raccoglimento con noi stessi e riflettere sui fatti avvenuti negli scorsi giorni.
Brandi ci rivela che il primo passaggio affinché un’opera d’arte, un luogo d’arte o un paesaggio d’arte possa essere protetto e custodito, deve come tale essere riconosciuto manifestandosi agli occhi e al cuore dell’osservatore. Senza il riconoscimento di quel valore aggiunto, un muro storico è solo mattoni e pietre, una lettera di un bisnonno dall’America è solo carta. Ed è attraverso questa scelta critica – che compiamo nella quotidianità di tutti giorni – che scegliamo cosa nella nostra vita ha importanza e cosa no.
Io sono sicuro che il borgo di Sicaminò abbia manifestato tutta la sua potenza di opera d’arte, nella sua duplice istanza storica ed estetica, agli occhi e ai cuori del sindaco, dell’amministrazione comunale, dei progettisti e dei sovrintendenti, ma il passaggio successivo, di cui parla Brandi, è quello della conservazione. Elevata come dovere morale nei confronti delle generazioni future.
Chi verrà dopo di noi cosa se ne farà di un borgo fasullo costruito nel 2021 come copia di quello vero vissuto dal Duca e dagli abitanti di Sicaminò? Perché non è scattato quell’impeto alla tutela, alla cura, alla custodia di un luogo così delicato e così amato? Dev’essersi inceppata qualche rotella in tutti noi, e da parecchio tempo. L’ingranaggio che ha fatto cilecca è sicuramente quello della “sensibilità”.
Io credo al sindaco, lo dico con sincerità. E come riporta lei nel comunicato non penso che si siano svegliati la mattina e abbiano deciso: «Radiamo al suolo Sicaminò!». Probabilmente hanno fatto pure del loro meglio, ma ciò che è mancato è stato il confronto con i nostri accademici ed esperti, per avere il parere di chi ha dedicato la vita alla tutela del patrimonio storico e artistico collettivo. Sia chiaro, qui non mi riferisco solo ai teorici del restauro, ma anche – e, in questo caso, soprattutto – agli ordinari di ingegneria dei tre grandi poli universitari dell’isola. Se mancavano i soldi, e le idee, una collaborazione con qualche valido laureando in ingegneria avrebbe probabilmente salvato quegli stessi edifici che oggi sono polvere.
Adesso però mi scosterò dalla narrazione del comunicato del sindaco perché, con altrettanta sincerità, non credo assolutamente che non ci fosse speranza per salvare degli edifici così bassi costituiti del solo piano terra vecchi di a malapena 100 anni – certo, con tutte le loro problematiche strutturali, dal momento che oggi la ricerca tecnologica ci fornisce numerosissimi metodi di intervento da adottare in contesti fragili come i nostri borghi storici.
Credo che anche la mancata comunicazione con la comunità abbia influito sul risultato disastroso. Dentro di me sono certo che se si fossero resi pubblici gli intenti alla popolazione gualtierese più di uno si sarebbe alzato in piedi per gridare agli altri che il re era nudo, mostrando a tutti che un operare così inutilmente violento avrebbe avuto delle conseguenze irrimediabili. Perché sappiamo tutti che niente potrà riportare indietro il tempo e restituirci quelle porzioni del borgo oggi perdute, tantomeno la replica fantoccia in stile Outlet Village proposta nelle viste di progetto.
Eppure il borgo se pur non vincolato dalla soprintendenza, al contrario del castello e della chiesa che lo sono, aveva già delle norme che vigilavano sulla sua tutela imposte proprio dal Comune, dal momento che l’intero perimetro dell’area rientrava nella Zona A del piano regolatore vigente, che recita a questa voce: «gli interventi ammissibili sono quelli di ristrutturazione edilizia e potranno riguardare solo le parti interne di singole unità edilizie senza alterazione del volume e della sagoma, laddove siano indispensabili ai fini del rinnovamento funzionale delle suddette unità e solo nell’ottica del recupero di elementi tipologici e formali alterati, dovranno comunque rispettarsi le tipologie caratteristiche del centro storico, con esclusione della demolizione e sostituzione edilizia».
Ma questo ci fa credere che l’ingiustificabile comportamento aggressivo adottato va contro le norme che il Comune stesso fornisce ai cittadini e ci si interroga: perché egli dovrebbe porsi al disopra di esse per infrangerle?
Voglio fare un parallelismo particolarmente esplicativo per avviarmi alla conclusione. Avendo un parente ammalato, non troppo anziano, giustamente lo si fa visitare da un medico. Questo però prescrive come unica soluzione per far terminare i suoi dolori l’abbattimento del paziente e la sua sostituzione con una carta mortuaria che ne evoca fedelmente il ricordo. A questo punto si dovrebbe innescare qualcosa in noi. Farci dubitare del professionista a cui ci siamo affidati e rilegare l’incarico a uno specialista del caso. Probabilmente necessitava di poche aspirine.
Ma il borgo non è stato cancellato del tutto, siamo ancora in tempo per fermare i lavori e insieme ripensare a un progetto più serio, aggiungere delle protesi agli arti mutilati (che non siano delle copie peggiori) e ritornare a fruire tutti di quel luogo che amiamo e che non vogliamo rivedere solo nei nostri ricordi vissuti e nelle fotografie.
Come ci suggerisce il poeta Arminio dobbiamo ritornare a osservare le cose con uno sguardo di clemenza e:
Bisogna prendere casa nel mondo,
dare confidenza a un muro,
alla curva di una strada.
Così quando moriamo
muore il corpo
e noi siamo immortali
perché siamo in un rovo,
nella tasca di un cappotto,
nella gamba di un tavolo.
Chissà quanti di noi si ricordiamo di altri di noi, ormai passati, perché a quell’angolo Compare Turi ci appoggiava la bicicletta o Donna Cammelina che al quel chiodo nel muro ci asciugava le robbe.
Bisogna ripartire da qui,
qui c’è il sacro che ci rimane:
può essere una chiesa, una capra,
un soffio di vento,
qualcosa
che non sa di questo mondo
né di questo tempo.
Custodiamolo insieme.
Fermiamo i lavori. Rivediamo il progetto.