14-15 gennaio 1968, Belice: la terra trema, la politica dimentica. Danilo Dolci guida la rivolta
di Carola Susani*
Cinquanta anni fa, in Sicilia occidentale, nella valle del fiume Belìce, a Gibellina e Salaparuta, Montevago, Poggioreale, Partanna e in molti altri paesi a ora di pranzo si avvertì la prima scossa. Sesto grado della scala Mercalli. Tremarono tavoli, lampadari, scale; erano paesi antichi, e ci furono i primi crolli. Presto ne arrivò una seconda più forte. C’è chi lasciò le vecchie case, le tavole ancora imbandite. Era un inverno molto freddo quello del 1968, in Sicilia c’era la neve; molti decisero lo stesso di passare la notte in macchina. C’erano file e file di macchine per ogni tornante che portava ai paesi. C’è chi si trasferì nelle case di campagna costruite di recente. Altri ancora che avevano muri senza lesioni, cornicioni intatti, la sera scelsero di rientrare sperando che le scosse che avevano interrotto il pranzo non annunciassero nessuna catastrofe.
Attorno a mezzanotte, ci fu un avvertimento, una scossa del quinto grado. Molti ancora scesero per via. Fra le due e mezza e le tre, le scosse dell’ottavo e nono grado della scala Mercalli rasero al suolo paesi interi, sradicarono alberi, aprirono crepe nelle strade. Chi si era rifugiato in campagna sentì le mura tremare, uscì al freddo, nella notte tersa vide sparire di colpo ogni luce nei paesi. Poi la terra tremò ancora.
Nei giorni successivi la tv e i quotidiani locali e nazionali raccontarono i 300 morti, le città distrutte, le storie singolari dei salvati. Sfogliando le pagine dei quotidia- ni e delle riviste dell’epoca si nota un’insistenza, coppole, coppole e scialli, come se di fronte agli occhi dei fotografi si fosse scoperchiato un mondo contadino immobile da secoli. Foto di padri e madonne, bambini sdentati in frotte. Rappresentazioni di un dolore che veniva alla luce, che pareva emergere da un mondo immobile inaspettato, rimosso, nell’Italia del boom. Da subito tutta Italia, l’Europa, il mondo reagirono, si scatenò la solidarietà, e ci mise un bel pezzo a finire.
In realtà la valle del Belìce, con le sue coppole e gli scialli, tutto era all’epoca tranne che immobile. L’anno prima era stata attraversata dalla Marcia per la Sicilia Occidentale, per la Pace e per un Nuovo Mondo. L’aveva promossa il Centro Studi per la Piena occupazione di Danilo Dolci, poeta e attivista nonviolento che ha segnato la storia di questo paese. Accanto a lui, a Lorenzo Barbera, a Paola Buzzola, suoi collaboratori, sfilavano braccianti, famiglie a piedi e sulle Ape, ragazzi e ragazze, poeti, intellettuali, pittori, c’era Buttitta, c’era Levi, c’era Treccani, marciava persino Vo Van Ai, poeta e intellettuale vietnamita, che si batté contro gli Usa in Vietnam e dopo la sconfitta degli Stati uniti continuò a combattere per la democrazia nel suo paese. C’era Peppino Impastato, giovanissimo. Era una marcia lunga, lenta che attraversava una Sicilia in parte ancora granaria, in parte piena di vigne. La marcia teneva insieme mondi diversi, il mondo della nonviolenza, il mondo cattolico (almeno in parte), il mondo comunista; ma era la nonviolenza di Dolci che guidava.
Così, per capire cosa successe dopo il terremoto, come mai la Sicilia occidentale terremotata divenne un crocevia, fu per un momento capace di proporre una cultura e persino un modello di sviluppo, fu meta di architetti, studenti, sociologi, attivisti, mi tocca fare qualche passo indietro, andare a vedere cosa c’era dietro quella marcia. La Sicilia non è mai stata immobile, semmai teatro di conflitti, in molta sua parte ostinatamente, tragicamente eroica: nella memoria di molte famiglie negli anni Sessanta c’era ancora la lotta per la terra che aveva lasciato morti sul terreno e che aveva avuto come esito un po’ risibile la riforma agraria con le sue casette tutte uguali sparse nella campagna e spesso presto abbandonate. Nel 1952 Danilo Dolci era sceso alla stazione di Trappeto, si era disteso sul letto di un bambino morto di fame, Benedetto Barretta, aveva raccolto attorno a sé gente di buona volontà. Dolci era stato capace di lavorare a fianco con chi già si impegnava, la Camera del lavoro, la sezione del Pci di Partinico, che in quegli anni fioriva di giovani. Nel 1958 era nato a Partinico il Centro studi e iniziative per la Piena Occupazione. A partire dalle prime iniziative soprattutto simboliche di Dolci e del suo gruppo, lo sciopero alla rovescia dei disoccupati impegnati a rimettere in sesto una trazzera nel 1954 che portò all’arresto di Danilo e al processo (se ne può leggere nel volume edito da Sellerio Processo all’art. 4 con la postfazione di Pasquale Beneduce), il Centro studi aveva messo in piedi una struttura solida, di comitati cittadini, comitati intercomunali, formatori. Erano nate per l’impegno del Centro studi cooperative e cantine sociali, erano stati fatti partire i lavori per la Diga sul fiume Jato. Facendo base a Roccamena, un comune del Belìce interno, Lorenzo Barbera aveva suscitato l’impegno attivo di studenti, contadini. Insieme avevano prodotto una grande inchiesta individuando i problemi dell’area, dalla viabilità, a rimboschimento, dalle esigenze idriche ai patti agrari. Paola Buzzola aveva ragionato con le donne sulla scuola. Come funzionasse questo impegno di presa in carico dei problemi, questa “pianificazione dal basso” è raccontato ne La diga di Roccamena di Lorenzo Barbera edito da Laterza nel 1964 e ripubblicato nel 2016 dai «Quaderni del Battello» con la prefazione di Goffredo Fofi. Quando arrivò il terremoto il lavoro era nel pieno del suo sviluppo.
Il mio legame con questa storia data da allora. I miei genitori, architetti in Veneto, decisero di lasciare un’attività professionale avviata e di trasferirsi nella valle. Quando giungemmo, nel settembre del 1969, erano successe molte cose: su pressione popolare era stata varata, il 5 marzo 1968, una Legge per la ricostruzione e lo sviluppo ma la legge giaceva inapplicata, la popolazione terremotata abitava negli insediamenti di baracche dove aveva ricreato una vita comunitaria intensa, ma era una vita precaria e incerta, le baracche erano umide e fredde, si scoperchiavano per il vento. Fra Danilo e Lorenzo c’era stata una frattura. Il Giudizio popolare di Roccamena ne era stata la causa (sulla vicenda e sulla storia che racconto è appena andato in onda su RaiStoria un documentario di Matteo Berdini, Il sisma dei poveri cristi). Gli impegni del governo e delle istituzioni regionali erano stati disattesi. La legge giaceva inapplicata. La gente raccolta nei comitati ricordava anche gli impegni disattesi in precedenza, sullo sviluppo, le dighe, il sistema viario. Così nacque il cosiddetto comitato dei Cento, che poi proprio cento non erano, e si impegnò a individuare le responsabilità, dei ministri, del presidente della regione e così via. Lorenzo Barbera aveva partecipato e sostenuto il loro lavoro. Ne uccide più la burocrazia che il terremoto, recitava la scritta su una casa diroccata. E i Cento facevano lo sforzo di sciogliere la burocrazia in facce e teste, attribuire la responsabilità dell’emigrazione, della disoccupazione, della miseria. A novembre del 1968 nella piazza di Roccamena avvenne il Giudizio: i ministri, il presidente della regione e così via, vennero invitati a discolparsi. E i ministri arrivarono, riconobbero la legittimità della piazza. Vennero condannati a pene simboliche, per esempio: vivere un mese nelle tendopoli ministro e famiglia procurandosi il pane guidando camion. Non era previsto che le pene fossero applicate. Dolci rifiutò il Giudizio popolare, lo inquietava il tribunale del popolo, temeva le assemblee come entità incontrollabili, a rischio di derive aggressive, al limite violente, oggi si direbbe populiste; Danilo preferiva il lavoro in piccoli gruppi responsabili, azioni controllate come parole di una frase. Chiese a Lorenzo, a Paola, agli altri collaboratori, di disconoscere il Giudizio popolare. Lorenzo e gli altri sentivano di non poterlo fare, consideravamo l’impegno che con la popolazione più importante, e avevano poi un’idea diversa, arendtiana della politica. Lorenzo Barbera la sintetizza così: da cosa nasce cosa e poi mette radici. Così da uno che era nacquero due Centri studi, Lorenzo e i suoi fecero base a Partanna, nella baracca Martin Luther King donata dai sostenitori olandesi. Gli anni successivi furono anni di grandi battaglie, l’obiettivo era sempre l’applicazione della legge e del controllo dal basso sulla sua ap- plicazione. Attorno a Lorenzo e Paola, ai vecchi collaboratori di Dolci, si erano raccolti architetti, intellettuali, attivisti, ragazzi di Partanna – c’erano nonviolenti, comunisti, anarchici – che animavano le assemblee. Il governo continuava a non applicare la legge così durante un’assemblea popolare venne fuori l’idea che il governo fosse fuori legge, e la conseguenza che ne derivava: a un governo fuori legge non si pagano le tasse. Era una forma di pressione: la popolazione della valle del Belìce smise di pagare bolli e bollette, le bollette, raccolte, venivano mandate ai ministeri, i ministeri le rimandavano ai comuni, i comuni le rimandavano agli utenti, che di nuovo le raccoglievano e le rimandavano indietro. Un circolo potenzialmente infinito. Ai terremotati fu concesso di non pagare tasse e utenze. Poteva essere considerata una vittoria, ma il Centro studi l’avvertì come una sconfitta: la legge per la ricostruzione e lo sviluppo rimaneva inapplicata. Si alzò il tiro. Lorenzo racconta che un ragazzo ebbe l’intuizione: a uno stato fuorilegge non è giusto fare il servizio militare. Partì così la battaglia più dura, quella antileva, che vide coinvolti i diciottenni maschi di tutta la valle e i loro genitori, ragazzi (come Vito Accardo) incarcerati e il sostegno naturale delle associazioni antileva per il servizio civile. Si chiedeva che i ragazzi non facessero il servizio militare ma un servizio civile per la ricostruzione e lo sviluppo. Nei propositi del Centro studi anche quello era uno strumento di pressione; quando i ragazzi dei paesi terremotati furono esentati dalla leva, alla baracca Martin Luther King non si festeggiò, l’arma per far pressione era stata rotta. Eppure quel risultato fu un tassello importante della lotta per il servizio civile. Da cosa nasce cosa e poi mette radici, magari in tutt’altro posto (nei Ministri dal cielo di Lorenzo Barbera, ripubblicato da Due punti nel 2011 con interventi di Alessandro La Grassa e Goffredo Fofi potete leggere vivacissime testimonianze su queste vicende). Già nel 1972 il Centro studi si sciolse, chi era legato al Pci si sottrasse (erano tempi di compromesso storico), gli altri si ricoverarono chi in una chi nell’altra formazione dell’estrema sinistra. La storia del Centro studi potrebbe sembrare semplicemente una sconfitta. La ricostruzione nelle forme estenuanti e opache in cui poi avvenne non tenne conto dell’idea di pianificazione e di controllo attivo dal basso che i comitati popolari e il Centro studi avevano messo a punto. Eppure, passando per l’Irpinia e il suo terremoto, dove Lorenzo Barbera pure intervenne usando quegli strumenti, la pianificazione e il controllo dal basso in quella precisa forma sono state studiate, messe a confronto con altre esperienze simili, elaborate nei progetti di sviluppo dell’Unione europea, ripensate, riconosciute come strumenti imprescindibili per affrontare le crisi e i cambiamenti.
*pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 13 gennaio 2018.