Emigrazione: siamo ancora la carne da macello del capitale e dello Stato.
Si accende la campagna elettorale per le politiche del 4 marzo 2018. Numerosissime le uscite dei vari leader politici che sparano promesse perfettamente consapevoli di non poterle mantenere. Chi parla di vaccini, chi di lavoro, chi di università. Temi distinti tra loro ma coloro che li agitano hanno molto in comune. Sono parassiti che occupano poltrone in Parlamento dalla nascita della seconda Repubblica, esponenti di partiti politici che, a giro, hanno governato l’Italia e hanno portato ai massimi livelli il divario nord-sud. Un divario che in Sicilia si approfondisce.
Uno dei grandi temi che non a caso manca in questo inizio di campagna elettorale è il fenomeno crescente dell’emigrazione al Nord di migliaia e migliaia di giovani del sud e in particolare siciliani. I vari Salvini, Berlusconi, Bersani, Renzi (e quelli venuti prima di loro) hanno creato le loro fortune elettorali (e non solo) proprio perché hanno favorito la concentrazione di investimenti fruttuosi nelle aree del centro e del nord Italia. Hanno fatto questo attraverso politiche di cristallizzazione di poli produttivi e di attrazione per i flussi di persone oltre che di capitali.
Possiamo fare due esempi che possono sembrare riduttivi ma che, invece rendono al meglio l’idea.
I Cantieri Navali di Palermo, di proprietà della multinazionale Fincantieri dagli anni ’80, sono il polo lavorativo principale della città. Negli anni, per molti giovani della provincia, la possibilità di restare era legata a doppio filo alla possibilità di lavorarci. Il processo di riorganizzazione, che da qualche decennio a questa parte la multinazionale ha portato avanti, ha sancito una progressiva diminuzione di investimenti. A Palermo le commesse sono previste fino al 2019 e per lavori che non prevedono la costruzione di navi ma solo di qualche capannone. Per gli stabilimenti di Marghera e Ancona, per citarne alcuni, le commesse sono di miliardi di euro e sono garantite fino al 2030. La prospettiva è infatti quella che nel giro di qualche decennio Fincantieri decida di chiudere definitivamente lo stabilimento palermitano. La stessa sorte è toccata ad altri grossi stabilimenti come quello Fiat di Termini Imerese dismesso nel 2011 e quello di Ansaldobrera di Carini. Queste scelte hanno contribuito al raggiungimento di tassi di disoccupazione per la Sicilia che oggi arrivano a sfiorare il 40% mentre il 48% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tra i giovani invece il tasso di disoccupazione arriva al 57,2%. Sarà mica una coincidenza se solo nel 2016 diecimila siciliani si sono trasferiti al nord o all’estero?
Un altro esempio emblematico riguarda le Università. La differenza di finanziamenti ricevuti dalle università dell’isola rispetto a quelle del Nord aumenta di anno e anno. Solo tra il 2008 e il 2015 la percentuale di finanziamenti destinati alle nostre università è diminuita del 30% circa. Anche i numeri sulla diminuzione di iscritti non sono rassicuranti. Solo Palermo in otto anni ha perso circa ventimila iscritti. È di qualche giorno fa, invece, la notizia che riporta le percentuali dei fondi ripartiti nella gara sull’eccellenza della ricerca scientifica. Su 180 dipartimenti finanziati 155, l’86%, sono del centro-nord e si concentrano a Bologna, Padova, Milano, Torino, Firenze e Roma. Solo il 14% sono del Sud e buona parte di questi sono in Campania. Non è un caso infatti che gli Atenei delle città sopra citate sono le mete preferite dai giovani Siciliani che preparano le valige. Solo nel 2017 più di cinquantamila giovani hanno scelto proprio quegli Atenei per continuare i propri studi.
Nei piani dello Stato Italiano, la Sicilia è la terra in cui realizzare discariche, inceneritori, raffinerie e basi militari. I giovani che ci vivono, solo carne da macello da deportare in un Nord ricco, sviluppato e con maggiori possibilità di lavoro. Quello che resta è distruzione, sfruttamento delle risorse e imbonimento per convincerci che la responsabilità delle condizioni in cui versa la Sicilia sia solo dei siciliani. Per convincerci che la Sicilia è la terra di chi non vuole fare niente ed è per questo che ci sono meno possibilità. Quindi se veramente vuoi diventare qualcuno devi fare le valige e andare. I benpensanti la definiscono libera scelta. In un sistema socio-economico che fissa modelli e obiettivi da raggiungere ad ogni costo e che pone davanti al ricatto «emigrazione o miseria», si chiama costrizione.
Torna attuale la necessità di costruire una narrazione della nostra isola che non racconti solo dell’inefficienza di servizi, di scuole e università o della mancanza di lavoro e di futuro per i giovani. Anche perché tutto questo è il risultato di politiche mirate dello Stato centrale e di anni di governo della regione delegato a personaggi che hanno dimostrato di essere interessati solo alla poltrona e al profitto.
La difesa del territorio in cui nasciamo e viviamo passa anche dalla nostra capacità di imporre le nostre decisioni e rivendicazioni. La possibilità di invertire il fenomeno dell’emigrazione dipende proprio da chi oggi si trova davanti alla scelta di restare o partire. Chi resta può ancora incidere realmente per cambiare le sorti della Sicilia per difendere il territorio dalla distruzione e dalla desertificazione che avanza. Chi parte lo fa con la consapevolezza che potrebbe non essere cambiato niente al suo ritorno.