Alla guerra, alla guerra

Alla guerra, alla guerra
«Il nemico è alle porte», via col riarmo, ReArm Europe, urlano senza pudore Ursula von der Leyen e Commissione Europea seguiti dalla pletora dei guerrafondai. Del resto continua Ursula «tutto ciò avrà ricadute positive anche per la nostra economia e la nostra competitività».  
Sembra un impazzimento generale, un sovrapporsi di scelte irrazionali. Le notizie più diverse si accavallano senza tregua mostrando come il caos sistemico stia avvolgendo il mondo intero. portandolo nei pressi della catastrofe della guerra. 
Eppure vi è qualcosa di violentemente lucido che si fa largo, prende il sopravvento, determina le scelte degli Stati. É la consapevolezza piena della fine di un ciclo di accumulazione della ricchezza, che costringe alla ridefinizione generale delle condizioni spazio temporali della produzione capitalistica. 
In questa ridefinizione saltano tutti i giochi che il sistema degli Stati/capitale si era inventato per mantenersi in vita seppure sempre più immerso nelle sue stesse crisi.

Lo “Stato occidentale” vagheggiato da certa cultura anglosassone perde coerenza nel “si salvi chi può”. Si sgretolano le vecchie “aree economiche” con nuove e ben più aggressive riedizioni del bilateralismo. In europa si tenta il colpo dell’integrazione politico-militare per rientrare nei giochi violenti di quella che Arrighi chiama  “transizione egemonica”. Gli USA di Trump smettono la maschera democratica e dinanzi alla crisi e alla conclamata perdita di egemonia tentano un prepotente riequilibrio del disavanzo della parte commerciale e di far valere il loro dominio manu militari.

Chi pensa che l’avvento di Trump segni una discontinuità sostanziale nella politica USA si è fatto prendere da un gigantesco abbaglio. Un abbaglio come quello di chi vede nell’affermarsi delle “destre” una riedizione del fascismo. 

Il quadro generale entro cui il sistema degli Stati/capitale si muove – al di là dei modi più o meno eleganti e dell’apparente contraddittorietà con cui avvengono questi movimenti – è segnato dalla preparazione alla guerra per l’egemonia sul nuovo ordine mondiale. Gli irrigidimenti autoritari, i tentativi di concentrare le forze economiche e militari (si veda la relazione Draghi richiesta dalla von der Leyen), il più spudorato rastrellamento di capitali pubblici e privati (si veda l’ultima proposta della Lagarde di allineare il «rapporto tra depositi e asset finanziari a quello delle famiglie USA» e cioè investire i risparmi delle famiglie in asset ad alto rischio, al fine mobilizzare i capitali privati), l’uso massiccio della propaganda dei media nel costruire fronti interni per la guerra, non sono che i modi con cui sta avvenendo questa preparazione.

«L’ordine mondiale cooperativo che abbiamo immaginato 25 anni fa – dice Ursula von der Leyen –  non si è trasformato in realtà. Al contrario, siamo entrati in una nuova era di dura competizione geostrategica. … Dall’IA alle tecnologie pulite, dall’Artico al Mar Cinese Meridionale: la gara è aperta».  La guerra è aperta! 

Ma al di là degli aspetti epifenomenici, delle diverse, contraddittorie pieghe che prende questa transizione, ciò che rimane invariante – e che per noi rimane centrale –  è il suo violento abbattersi sui territori.

Questo è il quadro che abbiamo davanti: devastazione e saccheggio per le popolazioni e per i territori

Non si esce da questo quadro se non deprimendo l’efficacia, e quindi la presa sociale degli Stati/capitale. E l’efficacia degli Stati/capitale sta nella loro certezza di potere territoriale. Dove questo potere è messo in forse, dove si attenua la sua presa, l’armarsi e partite diventa più difficile, improbabile, perché il nemico che attenta alla loro illusoria sovranità non sta più in un “fuori”, ma è la messa in discussione della sua sovranità dall’interno; è la sua territorialità che salta, diventa oggetto di contesa. 

È la secessione dal sistema degli Stati/capitale che occorre costruire. Pensare a un mondo di liberi territori che si autogestiscono ricostruendo le proprie economie sulla misura dei loro bisogni reali e non indotti dal consumo industriale; pensare a territori confederati per far fronte alle necessità infra-territoriali; pensare il comune come modo di produzione delle relazioni sociali, non è il pio desiderio o l’utopia di un neo-territorialismo: è il portato della crisi storica del processo di accumulazione capitalistica, il modo di salvarsi dalla catastrofe permanente che il sistema degli Stati/capitale sta lucidamente costruendo.

Pensare ad un uso diverso della macchina statale o a un capitalismo riformato, più equo, non è solo un’illusione, ma il discorso perverso che ci vuol tenere dentro la logica del dominio. 

Nel violento processo di “transizione egemonica” il sistema degli stati/capitale è immerso in una delle sue più devastanti crisi storiche. Non sappiamo come finirà questa transizione, che forme prenderà il nuovo assetto dei poteri, se l’esito sarà un’altra sanguinosa riorganizzazione del sistema globale o la barbarie post bellica in un caos senza fine. Ma dinanzi all’approssimarsi degli Stati/capitale in guerra, compito delle insorgenze sociali è la costruzione di un vasto e multiforme fronte di resistenza territoriale capace di ostacolare la nuova promessa stagione degli orrori e di costruire la prospettiva di un mondo non dominato dall’infamia del profitto. 

Contro le guerre degli Stati/Capitale occorre organizzare l’indipendenza dei territori.

 

 

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