Catalogna: referendum e repubblica.
«El País», l’importante quotidiano spagnolo, fa i conti in tasca al referendum, per dimostrarne l’estrema fragilità “politica”, dopo averne messo in discussione la stessa legittimità giuridica, dato che più persone “potrebbero” aver votato più volte, e i controlli “sarebbero” stati molto ma molto laschi. Prendendo per buoni comunque gli stessi dati offerti dal governo catalano, per «El País» ci sono stati 2.262.424 voti, su un totale di 5.343.358 di elettori aventi diritto (quindi il 42 percento), con una percentuale di astensionismo, il 58 percento, superiore alla precedente consultazione del 9 novembre 2014. E, ricorda il giornale, Arturo Mas, ex presidente della Generalitat che aveva promosso quel referendum, aveva invece assicurato che i votanti sarebbero stati molti di più la volta successiva: come se fosse colpa di Mas o di Puigdemont se il clima che si è creato – e la realtà anche, della violenza poliziesca, fin dal mattino – non avesse finito per influenzare molti e farli decidere a restare in casa. Senza tema del tragicomico, «El País» dice che in ogni caso i 2.020.144 voti per l’indipendenza, rappresentano solo il 37,8 percento dell’elettorato, anzi una percentuale ancora inferiore, il 36,6 percento, se si prende in considerazione l’ultimo censimento elettorale e – qui proprio non si tiene – meno del 27 percento della popolazione se si calcolano anche gli stranieri e i minori che però non votano. Insomma, tira di qua e tira di là, alla fine per «El País» questa è la percentuale di catalani che vuole l’indipendenza. E come si può proclamare l’indipendenza se solo il 27 percento della popolazione (compresi stranieri e minori) la vuole? Puigdemont sarebbe un irresponsabile.
(Piccola parentesi: considerando che in Sicilia siamo poco meno dei catalani, cioè 4.6 milioni di aventi diritto di voto, se due milioni di questi si esprimessero al novanta percento per l’indipendenza, eh? Minkia. Questo per dire che bisogna avere misura delle cose, in questi giorni).
Ora – a parte la considerazione che un calcolo sull’effettiva espressione di voto rispetto la platea di votanti non solo invaliderebbe immediatamente l’elezione di Trump o di Macron, ma, a esempio in Italia, praticamente tutte le elezioni regionali e comunali degli ultimi anni, posto che ormai la percentuale di astensionismo supera il cinquanta percento e, per dirne una, già si parla di percentuali ancora superiori per le prossime regionali in Sicilia (ancora una volta: com’è che sono ste regole del quorum della democrazia elettorale, a piacimento?) – la questione più interessante su cui ragionare è quella del rapporto tra la parte “istituzionale” e quella “sociale” del movimento per l’indipendenza catalana.
Non c’è dubbio che proprio questa relazione forte ha dato forma al referendum, alla resistenza dei cittadini, ma anche a fenomeni significativi come la neutralità dei Mossos d’esquadra, la polizia catalana, spesso applauditi dagli elettori, cioè insomma a quell’incrinatura tra istituzioni verticali sullo stesso territorio (il caso precedente e ravvicinato, era stato dopo gli attentati di Barcellona, in una frattura evidente sulle competenze di chi per cosa tra Polizia nazionale e Mossos d’esquadra).
Ma la cosa più interessante è un’altra: secondo la legge che ha indetto il referendum (disconosciuta dal governo centrale spagnolo) si dice che entro 48 ore dai risultati il governo proclama l’indipendenza (se i risultati vanno in questo senso). Il partito di Ciudadanos ha suggerito al governo di applicare l’articolo 155 della Costituzione che praticamente esautora ogni autonomia della Catalogna, proprio per impedire questa dichiarazione o per renderla inefficace e “illegale”. Puigdemont invece ha detto che l’indipendenza non è schiacciare un bottone, ma un processo costituente articolato e complesso. E ha chiesto l’allontanamento della Polizia nazionale e della Guardia civil.
Intanto, pezzi della CGT, l’Intersindical Alternativa de Catalunya (IAC), l’Intersindical CSC y COS – si tratta di organizzazioni-chiave in alcuni settori fondamentali come i trasporti o le scuole – ma anche le CC OO e l’UGT, e le rappresentanze sindacali delle piccole e medie imprese Pimec y Cecot, hanno chiesto, insieme alla CUP (Candidatura de Unidad Popular), di proclamare uno sciopero per domani, martedì. Omnium cultural, un’associazione che lavora da anni su lingua e cultura catalane, ha detto che entro una settimana si realizzerà “il sogno di una repubblica”. È questo aspetto che viene messo in ombra dal conflitto “tra governi”: il fatto cioè che solo attraverso la capillare organizzazione sociale di una cultura e di un percorso di indipendenza è possibile spiegarsi lo straordinario movimento catalano per il referendum e quella “forza” nel difenderlo.
Migliaia di cittadini che dormono nei seggi, si aggrappano l’uno all’altro per non essere strappati via dalla violenza poliziesca, nascondono le urne, votano in tutti i modi, sfidano i manganelli e le botte, tutto questo non può essere spiegato solo attraverso Puigdemont e la sua “caparbia” indipendentista.
Puigdemont sta facendo quello che questo movimento capillare – fatto di cultura, di storia (si trascura spesso il fatto che in Catalogna i programmi di cultura e scuola siano nelle mani del governo autonomo da anni), di lotte quotidiane, di resistenza, di orgoglio – gli sta chiedendo di fare. E finché Puigdemont fa quello che il movimento gli chiede di fare va bene così. Lo faccia per radicato convincimento, per sfrenata ambizione, che importa. Immaginate che succederebbe se d’improvviso “smentisse” questo percorso e si mettesse a fare lingua in bocca con Madrid. Pensiamo a quello che successe in Grecia, non mill’anni fa: il referendum che Tsipras chiese e si svolse regolarmente sull’accettare o meno le condizioni della Germania sul debito pubblico diedero un risultato esaltante. Poi però prevalsero “ragioni di Stato”: poteva andare diversamente? Cosa poteva succedere? Un referendum, insomma, non è tutto. Questo è il ruolo delle “istituzioni politiche” in questo processo costituente. Nello stesso tempo, il movimento catalano si va pronunciando “a modo suo”, scendendo in piazza e proclamando lo sciopero. E finché il movimento di piazza sarà capace di indirizzare e dare corpo a questo percorso, finché cioè queste nuove “istituzioni sociali” dal basso, dove non contano le appartenenze partitiche ma la mobilitazione verso gli stessi obiettivi, creano dinamismo politico nella società si può pensare che quello che sta accadendo in Catalogna non è solo “uno strappo” da Madrid.
Come recita l’inno catalano: Ara és hora, segadors! / Ara és hora d’estar alerta! – è il momento, mietitori! / è il momento di essere pronti!