Chi attacca i pescatori siciliani
La rabbia espressa la settimana scorsa a Roma e a Porticello (sciopero e occupazione del mercato ittico) da pescatori, marinai e piccoli armatori ci impone una riflessione attenta alle ragioni che hanno portato a una così dura protesta. Una protesta che – le maggiori testate giornalistiche hanno voluto sottolinearlo – sembra essere stata guidata soprattutto dai lavoratori siciliani e meridionali.
Tanti come sappiamo sono infatti i porti e i mercati ittici nell’Isola, dalla zona orientale, Marsala, Mazara del Vallo, Porticello, a quella orientale, Messina e provincia, Catania, Portopalo, Sciacca. La pesca in Sicilia come settore economico rappresentava nel 2014 il 17 % del pescato e il 23,9 % del ricavo nazionale.
Ormai da tempo soprattutto pescatori e marinai siciliani lamentano ed esprimono forte insofferenza sulle regolamentazioni nazionali che recepiscono quelle europee sul pescato e sull’intero settore pesca. Multe e restrizioni diventano sempre più elevate e al limite della logica, spesso con uno scarto di migliaia di euro rispetto al valore effettivo di mercato del pescato soggetto a restrizione. Così i pescatori lamentano un clima e un contesto di mancanza di condizioni di serenità per uscire ogni giorno in mare, perché ritrovarsi un pesce “sbagliato” nelle reti o nelle nasse può letteralmente farti chiudere “baracca”; dal 2000 ad oggi circa 3.000 pescherecci e 12.000 posti di lavoro in meno mentre è di questi giorni la pubblicazione del report della Fondazione Curella che quantifica in poco meno 600 mila le famiglie in regime di povertà e ne ritiene a rischio la metà dell’intera isola.
Nella natura dei provvedimenti UE messi in atto dal Governo italiano è infatti evidente una nemmeno troppo velata politica che punta a ridimensionare la presenza dei pescherecci siciliani (a favore di mercati del lavoro a più basso costo di manodopera come quelli nord africani soprattutto) nel bacino del Mediterraneo, forzando alla riconversione in acquacoltura e lavorazione del prodotto a terra con l’incentivo della rottamazione. Tutto ciò porterà alla più o meno veloce scomparsa di tecniche tradizionali di pesca, con pescherecci perlopiù di modeste dimensioni con reti e nasse, caratteristiche del nostro territorio e certamente meno inquinanti e invasive per i nostri mari rispetto a mega allevamenti (che abbassano oltretutto la qualità del prodotto al consumo). I Giapponesi nei nostri mari detengono il quasi monopolio (sancito da accordi istituzionali) sul pescato del pregiato tonno a pinna gialla presente nel Mediterraneo!
Ma torniamo alle politiche europee. Su «Affari Marittimi e Pesca»: “Tra il 2014 e il 2020 verranno stanziati 6,5 miliardi di euro per finanziare progetti nel settore marittimo e promuovere la diversificazione (…) come il turismo costiero (183 miliardi di euro di valore aggiunto all’anno) e settori del futuro, come l’estrazione mineraria in alto mare o l’energia oceanica o l’acquacoltura, o quelli in via di sviluppo quali la biotecnologia marina (14,1 miliardi di euro)”. La direzione pare chiara, come le intenzioni: favorire il turismo di massa che inevitabilmente aggraverà la devastazione delle coste (come il progetto della altotesina Adler a ridosso delle riserva naturale di Torre Salsa), pieni poteri ad aziende e multinazionali petrolifere e dell’energetica di scandagliare e trivellare i nostri fondali in cerca di gas, petroli e minerali, pale eoliche, etc. Il settore della pesca verrà fortemente ridimensionato e relegato all’acquacoltura ed alla lavorazione di prodotto congelato importato.
Ma c’è di più. Gli accordi tra UE e paesi della costa nord africana immediatamente dopo il quietarsi delle Primavere Arabe, volti a incentivare la pesca di quest’ultimi nel Mediterraneo sfruttando come già detto un più basso costo della manodopera, facilitando attraverso joint-venture l’inserimento di società francesi e spagnole, stanno fortemente accelerando la drastica riduzione dei pescherecci siciliani (dal 2000 al 2014 sono passati da 4.329 a 2.882 e 285 nel solo 2016, numeri che corrispondono a circa 1.500 posti di lavoro in meno solo per l’anno appena trascorso). Altre motivazioni del grande capitale vorrebbero infatti decidere, manovrare e distruggere il settore della pesca in questo scenario mediterraneo. Motivazioni legate al controllo dei flussi migratori e alla militarizzazione dei mari. In perfetta sintonia con la legge Bossi-Fini, che prevede addirittura accuse per “favoreggiamento all’immigrazione clandestina” e vieta ogni manifestazione di solidarietà dettata dalla semplice e millenaria legge non scritta del mare sull’imprescindibilità del soccorso, le direttive europee attuate da Guardia Costiera e Guardia di Finanza hanno spesso impedito e ostacolato fisicamente gli innumerevoli soccorsi in mare dei pescherecci siciliani alle navi cariche di migranti che si affacciano sulle nostre coste. La militarizzazione (e le folli spese!!!) e i continui respingimenti della “Fortezza Europa” in mare in nome della sicurezza e del controllo sono già partiti con le operazioni Frontex, Triton. Le solite promesse di “sviluppo” (per chi!? di cosa!?) abbellite da paroloni come “pianificazione dello spazio marittimo” o “sorveglianza marittima integrata” non lasciano dubbi su un futuro in cui il mar Mediterraneo sarà più che altro una scorribanda di navi, sottomarini e aerei da guerra piuttosto che di pescatori, marinai e pescherecci. Aggiungiamoci un clima geopolitico fortemente instabile con Sigonella, il Muos… e un futuro così lontano sembra decisamente avvicinarsi.
Chiaro, no? Si spendono miliardi di euro per militarizzare i mari, controllare e giocare alla guerra ma non si riesce, o più chiaramente non si vuole, trovare un equilibrio tra salvaguardia dei mari e sostenibilità economica, societaria e culturale di chi li vive e ne trae sostentamento da sempre. Anzi, tutto sembra essere pianificato per una progressiva distruzione e perdita di posti di lavoro, tradizioni e vera sostenibilità legata alle attività di pesca.
Chi ha detto che il colonialismo è finito!?