Con Afrin. Per non sopravvivere in ginocchio.
A 7 anni dall’inizio della guerra in Siria, il 20 Gennaio 2018, a pochi giorni dalla visita del presidente turco Erdogan in Italia a Papa Francesco, inizia l’offensiva denominata paradossalmente “Ramoscello d’ulivo”, l’offensiva turco-islamista contro i territori curdi liberati nel nord-ovest della Siria, in particolare sulla città di Afrin, avamposto delle forme di autogoverno della rivoluzione curda. Dopo più di 50 giorni di resistenza popolare guidata dalle unità di protezione popolare Ypg e Jpg, si conta un massacro di 300 civili, tra cui molti bambini, e circa 700 feriti.
Quali sono le cause di questo attacco disumano sulla popolazione curda?
Sino a quando le unità di protezione popolare sono state fondamentali nella guerra contro l’Isis, nella protezione dei territori e dei confini interessati dagli attacchi dello stato islamico, come a Kobane, il mondo intero applaudiva, e con esso vi era anche il plauso e l’appoggio (anche militare) dell’alleanza internazionale anti-Isis con a capo gli Stati Uniti d’America, per cui anche la Turchia era costretta a rimanere a guardare. Adesso, che si ritiene che l’Isis sia ormai agonizzante, quantomeno in Siria e in Iraq, gli Stati Uniti hanno allentato notevolmente la condotta di favore verso le unità di protezione popolare curde: Erdogan, una volta percepita questa svolta, lancia la sua offensiva contro Afrin. L’obiettivo dichiarato dalla Turchia è quello di liberare Afrin da Isis e miliziani curdi delle unità di protezione del popolo, considerati terroristi a pari merito, i secondi poiché vicini al Pkk, partito dei lavoratori del Kurdistan, fuori legge in Turchia.
L’obiettivo di Erdogan in realtà è abbastanza palese: impedire a tutti i costi la costruzione di uno stato curdo indipendente. Un attacco che però arriva in ritardo con la storia, come dimostrano d’altronde gli ormai 59 giorni di resistenza popolare sul territorio; come ci raccontava già qui Davide Grasso, ex combattente con lo YPG in Rojava rientrato da poco dalla Siria, oggi il nord del paese è governato dalla confederazione democratica della Siria del Nord, ovvero una confederazione di circa 4.500 comuni che sperimentano un processo rivoluzionario di autogoverno e di indipendenza dei territori liberati, un processo democratico in senso comunistico e confederale. È questo l’obiettivo dell’operazione Ramoscello d’Ulivo di Erdogan e della Turchia, impedire che tale esperienza rivoluzionaria di autogoverno si sedimenti e continui, con un assenso\consenso dell’Onu. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha infatti sottolineato che “Ankara ha legittimi motivi di preoccupazione ed ha agito in modo trasparente segnalando le sue intenzioni a Washington prima di lanciare l’offensiva”; il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva invece decretato il 24 Febbraio la risoluzione del cessate il fuoco per la Siria e il ritiro delle truppe turche, una risoluzione violata con l’assedio di Ghouda Est da parte di Assad e del suo alleato russo, e l’assedio di Afrin a nord del Paese con l’operazione turca.
Intanto ad Afrin la situazione a livello umanitario peggiora di giorno in giorno: l’esercito turco si è impossessato della principale diga a nord-ovest del paese e dei relativi impianti idrici, per cui manca persino l’acqua potabile, scarseggia sempre di più il pane, poiché i principali forni cittadini sono stati bombardati dagli aerei turchi; per non parlare della questione sanitaria, non soltanto per l’altissimo numero di feriti, ma soprattutto perché Sabato 17 Marzo l’aviazione turca ha bombardato per ben tre volte l’ospedale di Afrin, unico ospedale civile funzionante nel quale si erano rifugiati i feriti dei bombardamenti precedenti, causando altre decine di morti.
È assordante dunque il silenzio della comunità europea dinanzi a questi avvenimenti. Per non parlare della linea di condotta assunta dai media, soprattutto italiani, i quali, o sono del tutto disinteressati agli avvenimenti di questi giorni, oppure sono pronti a mistificare la realtà pur di non consegnare al mondo le informazioni necessarie per comprendere il massacro messo in atto da Erdogan e i suoi partner militari e commerciali, ovvero l’Onu, Italia inclusa. Partner militari che affermano di combattere il terrorismo islamista, mentre in realtà lo sostengono armando la Turchia: sì, perché in realtà è ormai cosa nota che dell’esercito turco entrato in questi giorni ad Afrin fanno parte anche miliziani jihadisti dello Stato Islamico. Un alleato Nato con Al Qaeda e i miliziani dello Stato Islamico. Ma l’unico fatto degno di nota da parte dei media italiani sembra essere quello dei sedicenti milioni di profughi in esodo: in realtà, è stata l’Amministrazione autonoma di Afrin a dichiarare qualche giorno fa di aver chiesto ai civili di andare via dalla città per evitare di essere presenti al momento in cui l’esercito turco con i suoi jihadisti sarebbero entrati in città per compiere il loro genocidio pianificato contro la popolazione curda. E la popolazione che non poteva prendere parte alla resistenza popolare, si è in realtà spostata nella regione di Sheba, a sud est del cantone di Afrin, anch’essa parte della federazione, rimanendo sempre all’interno della confederazione della Siria del Nord: rimanendo dunque sempre all’interno del progetto rivoluzionario portato avanti nei territori che hanno conquistato l’autogoverno e l’indipendenza. Jacopo, un militante di Torino, al momento ad Afrin, racconta: “la popolazione nei giorni scorsi ha cominciato delle assemblee per organizzare la resistenza in città e quindi c’è un livello di mobilitazione attiva. La resistenza è forte e fa di tutto per impedire che accada tutto questo, però assistiamo ad una situazione umanitaria molto grave. Non c’è e non ci sarà una resa da parte dei curdi perché l’obiettivo è sempre stato che la Turchia e i suoi alleati jihadisti abbandonino i territori liberati”.
Negli ultimi giorni l’offensiva turca si è intensificata, questo poiché l’esercito è riuscito a sfondare le difese curde che proteggevano la città: i gruppi di jihadisti, a piede libero per il centro di Afrin, hanno torturato civili, dato alle fiamme bandiere delle YPG e abbattuto la statua di Kawa, il fabbro fondatore della mitologia curda. L’amministrazione autonoma ha dichiarato che «la guerra è entrata in una nuova fase: la transizione tra lo scontro diretto e le tattiche di guerriglia ‘colpisci e fuggi’ è necessaria per scongiurare la perdita di altre vittime civile e per colpire il nemico».
Afrin comunque non è caduta. La Turchia non ne ha ancora preso il controllo, nonostante le sue false dichiarazioni da propaganda. Afrin non è caduta, poiché la resistenza popolare, guidata da YPG e JPG, è forte e determinata. È determinata perché si tratta di una comunità che ha lottato e continua a lottare contro ogni oppressore, che assume una volta il volto dell’Isis e la volta successiva il volto della Turchia e i suoi alleati Nato; è determinata perché si tratta di una comunità forgiatasi nella resistenza popolare e nella rivoluzione, di una comunità in difesa dell’indipendenza del proprio territorio liberato. Afrin non è caduta.
“Afrin. Non dobbiamo sostenerla perché sennò ‘cade’. Un’esperienza come questa non può cadere. Afrin vince anche se i compagni muoiono tutti, per una strana verità che dovrebbe esserci familiare. Siamo noi che, se non lo comprendiamo, siamo condannati ad ammettere che stiamo sopravvivendo in ginocchio”.