Considerazioni su fase attuale e territori
I grandi gruppi monopolistici multinazionali e transnazionali dominano ormai l’area capitalista mondiale. Il dominio sovranazionale di questi gruppi determina in modo rilevante le trasformazioni del ruolo politico degli Stati. Trasformazione non scomparsa o tendenza alla scomparsa. Gli Stati continuano ad assolvere funzioni strategiche nella riproduzione della materia sociale, ma adesso non hanno più la funzione di mediare nel corpo sociale gli interessi delle diverse frazioni della classe dominante. Lo Stato interiorizza [utilizzo un espressione di Poulantzas] le ragioni del capitale multinazionale, assumendosi l’onere della produzione e riproduzione delle condizioni politiche, giuridiche ed ideologiche che garantiscono i suoi interessi. Lo Stato si fa esecutore organico delle direttive del capitale multinazionale nel suo complesso. Ciò significa che in generale non fa gli interessi di una o più società multinazionali, il che accade anche, ma che, interiorizzate le ragioni del capitale internazionalizzato, si fa interprete ed esecutore dei suoi bisogni nei confronti di ogni frazione di capitale così come del corpo sociale nel suo insieme. Il progetto TTIP, attualmente in fase di discussione nel parlamento europeo, ne rappresenta un più che valido esempio.
Agenti di questa trasformazione dello Stato sono particolari organizzazioni (consorterie, lobby, fondazioni, bande) che rappresentano il corpo politico delle imprese multinazionali e che attraversano, controllano e indirizzano l’apparato statale, gli enti controllati o partecipati, i partiti, i centri di programmazione e di ricerca, la cultura. Funzione di queste organizzazioni e di questo personale esperto è quello di conquistare direttamente o indirettamente le posizioni decisive o le posizioni di comando. Una guerra per bande che si riversa trasversalmente nei partiti politici stabilendone le linee di condotta e che trovano come unici punti di convergenza quello della sicurezza e della diffusione dei codici culturali del capitale monopolistico internazionalizzato.
Questi agenti del capitale multinazionale sono gli autori delle attuali politiche sociali ed economiche che attualmente operano ad ogni livello sia nazionale che internazionale. Per chi volesse conoscerne i nomi basterà cliccare su Internet le parole “consulenti economici” di questo o quel partito, di questo o quel governo. Sono attualmente al governo con Renzi, gesticono Unicredit e Monte dei Paschi, l’ENI (Scaroni) e lo Ior per parlare solamente della McKinsey. Monti era il presidente della sezione europea della Trilateral. Organizzazioni come l’ASPEN Istitute Italia (fondata nel 1950 in USA) dichiarano esplicitamente che la loro missione è “l’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale, politica e culturale del Paese … con un’attenzione particolare alla business community italiana e internazionale”.
Proprio vestendo il ruolo di dirigente della Ernst & Young, Baccei, attuale Assessore all’economia della Regione Sicilia, inviato da Renzi, ha assistito clienti come Finmeccanica, Sogei, Inail, il Miur, il Comune di Roma, la Regione Abruzzo. Ma non solo. Baccei ha anche esperienze professionali al fianco di Coldiretti oltre che di grosse aziende come Mediaset, Oil & Gas (del gruppo Eni) e Galbani.
È questo personale che come risposta alla crisi strutturale della vecchia e inadeguata forma parlamentare muove nel senso della riforma costituzionale e guida il processo di esecutivizzazione dello Stato ossia il processo che abolisce progressivamente le prerogative già ridotte all’osso dei parlamenti e concentra il momento decisionale nelle mani dell’esecutivo.
Ed è in questo quadro che va letta la recente ripresa della propaganda per l’abolizione dello Statuto speciale dell’Autonomia Siciliana. Dopo circa 70 anni (15 maggio 1946) di autonomia fittizia -se non nella parte che riguardava i privilegi spettanti al servizievole ceto politico siciliano- e di reale sottomissione alle politiche dello Stato Italiano e dei maggiori gruppi industriali e finanziari che lo dominavano e lo dominano, pare siano tutti d’accordo e tutti pronti a sbarazzarsi della natura pattizia del sistema autonomistico siciliano e ad eliminare lo Statuto speciale della regione Sicilia del 1946, convertito in legge costituzionale nel 1948.
Le autonomie, recita il coro, sono ormai obsolete e di intralcio alla dinamicità e flessibilità delle politiche govenamentali. Centralizzazione e verticalizzazione dei poteri interpretano l’urgenza dell’economia dominata dal capitale monopolistico e dalla sua finanza. Non si tratta solamente di un escamotage per evitare il pagamento dei debiti dello Stato verso la Sicilia, ma di un tentativo di “riforma costituzionale” che tolga di mezzo ogni tipo di intralcio alle decisioni dell’esecutivo, ossia degli esecutori delle direttive delle consorterie Multinazionali. Il referendum del 5 dicembre 2016 tratta proprio di questo. Quella che il PD chiama “clausola di salvaguardia” (l’articolo 117 comma 4 della nuova costituzione), dopo la breve sbornia “federalista”, costituisce l’atto di riaffermazione della supremazia dello Stato nei confronti delle relative autonomie territoriali. E questo è possibile coglierlo ad ogni livello: se il vecchio capitalismo ed il suo Stato si potevano permettere di mantenere l’autarchia formale dei Comuni, il capitale multinazionale ed il suo Stato non possono più permetterselo. Anche questi ambiti periferici debbono essere posti direttamente sotto il controllo dell’esecutivo. Ed è a questo processo che si affiancano progetti come il TTIP, che nell’impazienza dovuta alla crisi permanente del capitalismo, tentano in parallelo di scavalcare le contraddizioni e i tempi che i processi di esecutivizzazione comportano al livello dei singoli Stati.
L’attuale discussione nel parlamento europeo del TTIP e il coro di approvazione che si leva dalle fila delle consorterie multinazionali dà il segno dell’insufficienza e del fallimento sostanziale dei progetti politici delle “aree economiche” come UE e Nafta, che nelle intenzioni degli ideatori avrebbero dovuto rilanciare l’accumulazione. Il capitalismo in crisi si trova a dover ripensare nuovi assetti produttivi globali e nuove regole e ciò significa immediatamente dover riconsiderare i rapporti di forza in campo.
La crisi generale storica del modo di produzione e riproduzione capitalistico, che è crisi di sovrapproduzione di capitali, ha sostanzialmente travolto i vari accorgimenti che nel tempo si sono susseguiti nel tentativo di frenarne il corso. Massiccio intervento dello Stato nell’economia, ristrutturazioni delle imprese, liberalizzazioni dei mercati, politiche di flessibilità del lavoro, concentrazioni di capitale, affermarsi del modello informazionale, costituzione di aree di libero scambio, messa a profitto dei territori, ecc., hanno smussato/rallentato nelle metropoli imperialiste gli effetti della crisi, ma non ne hanno fermato l’andamento, che a partire dal 2007 è esploso ed è tutt’ora in corso.
Sovrapproduzione di capitali rimanda immediatamente ad eccedenza critica di concorrenza. Questa non può essere più risolta con l’ampliamento dell’area produttiva essendo ormai l’intero pianeta l’area produttiva del capitale multinazionale. Ma può essere ancora contrastata eliminando competitori mondiali dall’area economica mondiale. Il TTIP e gli altri accordi commerciali con aree economiche “affini” (che creano un teorico fronte occidentale capeggiato da USA, UE, Australia, Canada, Svizzera, Israele, Turchia, Corea del Sud, Giappone) aprono le porte ad un nuovo e più esteso conflitto transnazionale per la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro. Soltanto nel ridimensionamento o nella distruzione dei capitali concorrenti si dà la possibilità della ripresa de ciclo economico. Sovrapproduzione di capitali, come sempre, significa guerra.
I passaggi sin qui sinteticamente delineati hanno comportato ed ancora comportano trasformazioni sostanziali della materia sociale. Si è modificato il modello di sviluppo industriale, che a partire dagli anni ’70 è stato progressivamente rivoluzionato dall’informatizzazione, si è modificata la composizione delle classi sociali, si è modificato il concetto di sovranità nazionale, si è sostanzialmente modificato il mercato delle merci e dei capitali, si sono modificati gli assetti urbanistici delle città metropolitane e non, e così gli assetti della campagna, si sono sostanzialmente modificate le concezioni dello spazio e del tempo, … insomma oggi ci troviamo immersi in un mondo diverso da quello di 40 anni fa e sicuramente altro da quello di 80 anni fa.
Questi cambiamenti sono stati caratterizzati e sono tutt’ora caratterizzati da due elementi che si determinano l’un l’altro e che si amplificano con l’acuirsi della crisi economica: appropriazione /espropriazione e concentrazione. L’appropriazione dei saperi, degli spazi, dei tempi, che sin dagli albori hanno costituito il presupposto del capitalismo (nell’espropriazione ed accumulazione del sapere dei mestieri, nella privatizzazione del suolo, nella determinazione e accumulazione del tempo lavoro) hanno trovato a partire dagli anni ’70, con la diffusione del modello informatico, una estensione sempre più accelerata. Un “nuovo” modello di sviluppo che tra di loro chiamano “nuova economia” o “economia dei flussi”.
Non è affatto cambiato il fine del capitale, che rimane quello del profitto, ma è cambiato il modo di realizzarlo, il che significa che è cambiato il modo in cui si producono e riproducono i rapporti sociali. E naturalmente non è cambiato lo sfruttamento, anzi si è esteso oltre ogni limite ed è tracimato dai luoghi particolari della produzione, dove raggiunge livelli di neoschiavismo, nei luoghi della vita, sui concreti territori della vita quotidiana, dove riproduzione sociale e individuale si incontrano.
Il capitale si rivolge ora ai territori con nuovi accenti e brame particolari. Si punta ai territori come ad un insieme relazionale (di rapporti sociali ed ambientali) da governare, controllare e, nel suo complesso, disporre a fini produttivi.
Il territorio in quanto sistema di relazioni tra porzione di terra abitata ed abitanti deve essere spezzato e rimodellato. Spezzando le relazioni che legano abitanti e luoghi dell’abitare, il capitale crea le condizioni per la rimodellazione degli spazi e dei bisogni, il riorientamento e il disciplinamento delle condotte sociali secondo i suoi fini.
Attaccati nella loro valenza relazionale i territori tendono a divenire “spazio per il capitale”, lo spazio libero, piatto, predisposto al transito alla produzione e al consumo di merci ed esso stesso merce e fattore di produzione, dove è possibile per esempio procedere senza intoppi alle perforazioni petrolifere, all’impianto di antenne Muos, alle basi militari, alla riprogettazione dei quartieri, alla ricostituzione dei latifondi a condotta capitalistica, alla privatizzazione dei beni essenziali.
Resistere a questi processi, contrastarli rimanda prima d’ogni cosa alla capacità di ricomporre i territori restaurando la trama di relazioni che lo istituivano come ambito solidale capace di autorganizzazione. Ricomposizione del tessuto territoriale sui contenuti del mutuo soccorso, dell’autodeterminazione e dell’autogoverno significa indipendenza dal capitale, dalle sue logiche e dalle sue forme di dominio.