Contro l’escalation bellica nei nostri territori, costruiamo comunità di lotta
La scorsa domenica abbiamo partecipato alla grande assemblea lanciata dal movimento No Base di Coltano: più di trecento persone da tutta Italia e dalle isole per confrontarsi sulla necessità di opporsi alla trasformazione dei territori in hub militari e di impedire che vengano utilizzati all’interno della filiera della guerra.
Pubblichiamo i contributi di Antudo e Spazio No Ponte all’assemblea “Fermare l’escalation – Nessuna base per nessuna guerra” tenutasi al Bastione San Gallo (Pisa).
Contro l’escalation bellica nei nostri territori, costruiamo comunità di lotta
di Antudo
Da ormai anni assistiamo ad una sempre più stringente militarizzazione e aggressione ai nostri territori, e alle nostre possibilità di vita.
In Sicilia, la presenza militare statunitense e dell’esercito italiano, è un fatto che ha delle radici storiche e politiche che portano però ad un’unica conclusione: questo territorio può essere devastato, usato ed espropriato finchè ci sarà bisogno di fare la guerra.
A partire dalla seconda guerra mondiale, la servitù militare agli Stati Uniti è divenuta un fatto dovuto, quasi scontato nei complicati livelli degli scacchieri geopolitici, profondamente legato alla collocazione strategica dell’isola. Una perfetta piattaforma di guerra al centro del Mediterraneo.
Il processo di militarizzazione è costante, seppure raggiunga fasi di picco quando vengono impiantate enormi infrastrutture di guerra, come il MUOS ma non solo. È costante nell’allargamento, quasi passato sottobando al livello pubblico, di Sigonella, è costante nella costituzione di un accordo tra esercito e ufficio scolastico regionale per i PCTO di studentesse e studenti nelle caserme, è costante nella possibilità di costruire un’expo di armi e carri armati dentro un centro commerciale.
Un rafforzamento dell’apparato militare che nell’ultimo anno e mezzo, dallo scoppio della guerra in Ucraina, ha avuto indubbiamente un impennata. L’allargamento di Sigonella, base storica dell’esercito italiano e della marina militare statunitense, ne è un esempio: ampliamento dell’estensione con costruzione di nuovi sistemi di stoccaggio di munizioni pesanti ed esplosivi, ed entro il 2024 l’ampliamento massiccio delle capacità degli impianti di telecomunicazione della base.
Allo stesso tempo, mentre le esercitazioni a Punta Bianca, una riserva naturale dentro cui sorge un poligono militare dell’Esercito Italiano, ma anche utilizzato dalle forze Nato, sono teoricamente ultimate, lasciando un territorio devastato alle proprie spalle, esce una nuova proposta dell’Esercito Italiano in Sicilia: un nuovo HUB di addestramento sulle Madonie, un nuovo, enorme, poligono militare, che per 30 anni avrebbe inquinato, devastato e reso invivibile un territorio che è invece a vocazione agricola e di allevamento e che soffre già di un grave spopolamento.
D’altro canto, la guerra non si presenta solo nelle forme concrete della devastazione e dell’occupazione: ci viene costantemente propinato un attacco ideologico dell’apparato guerra che colpisce le nostre vite sin da giovanissimi.
Un esempio su tutti è la scelta di poter fare dei PCTO nelle caserme e nelle basi militari, ma anche la presenza dei militari di Sigonella che ridipingono le scuole come opere di compensazione, o l’esposizione dell’Esercito italiano a Catania che presentava le missioni all’estero dell’esercito italiano come atti eroici. La strategia è duplice ed è chiara: da un lato sponsorizzare l’esercito, la marina militare, le forze armate in generale come l’unica possibilità, lavorativamente parlando, di un futuro stabile, di uno stipendio fisso. Dall’altra l’esigenza dello Stato, in fase di escalation bellica, di ampliare le forze a propria disposizione e convincere la gente che l’esercito e la guerra sono cose necessarie.
E’ un lavoro sottile ma quotidiano, molto pervasivo, quello che lavora per farci introiettare che la guerra è giusta, che difendersi è necessario, che l’esercito serve.
La domanda che per fortuna sempre più giovani a cui viene propinata questa carriera si pongono è: la guerra è giusta, per chi? L’esercito serve, a chi?
A questi processi, molto concreti ma anche molto ideologici, che riguardano il nostro territorio vogliamo dare una lettura complessiva, perché vanno visti tutti insieme: non si può slegare l’ampliamento di Sigonella dal Decreto Ponte, non si può slegare la costruzione di un HUB militare trentennale sulle Madonie dai processi di svuotamento forzato, e non si può slegare la base MUOS dal triangolo industriale Melilli, Augusta, Priolo, come dalle decine di progetti di parchi eolici e fotovoltaici che insieme ad un hub militare, vedono il futuro della Sicilia in un hub energetico.
Non si possono slegare questi processi dall’arroganza con cui lo Stato agisce sui territori, dalla modernità capitalista e dalle brutture che produce.
Vedere i territori come luoghi da cui estrarre, per lasciare poi lo spettro di quello che si era: estrarre valore, risorse, forza lavoro, ma estrarre anche capacità umana, relazioni.
Militarizzare così pesantemente un luogo vuol dire cercare di renderlo completamente manovrabile dalla controparte, invalidare ogni possibilità di lotta e resistenza ai processi selvaggi di devastazione che viviamo.
Eppure…
Eppure quello che è successo nelle montagne madonite è l’esempio che è possibile contrapporsi ad un’escalation bellica che ci chiama in causa dentro conflitti che non ci appartengono.
E’ possibile che delle comunità si mettano insieme, con modi e forme dei più variati e con capacità umane ed organizzative inaspettate, e alzino la voce: il dietrofront dei Sindaci dei comuni interessati, Gangi, Sperlinga e Nicosia, è frutto di un rapporto di forza.
Un rapporto di forza basato su pochi concetti ma molto chiari: è chi abita i territori che deve decidere cosa succede e cosa no. E’ chi ne conosce i bisogni reali, che si deve organizzare insieme per metterli in pratica. Ma soprattutto, è chi non vuole l’ennesima ingerenza di uno Stato che appare sui nostri territori solo per affamare, devastare e inquinare, che vuole riappropriarsi di una decisionalità sul proprio futuro, ma principalmente sul proprio presente.
La battaglia nei paesi madoniti non è vinta, anche se questa è di certo una prima vittoria. La gente lo sa: guardia alta, bisogna vigilare. Festeggiare, certo, ma anche costruire comunità forti che possano opporsi ad un prossimo attacco. E, se sarà necessario, quelle comunità potranno andare a dare man forte in altri luoghi, qualora il progetto fosse spostato.
L’escalation bellica è un fatto che implica tutti i nostri territori, a vario titolo, e che ci carica collettivamente di una responsabilità, quella di inceppare il meccanismo. E’ possibile farlo in tanti modi: negli anni si sono occupate le basi militari, si sono fatti i blocchi dei camion fuori dalla base militare del MUOS, si sono fatte nei decenni lotte enormi contro la base di Sigonella. Oggi si configura anche una fase nuova, che non sostituisce i metodi precedenti ma che li amplia: nuove basi, nuovi espropri, nuove forme del nemico di militarizzare la società. A questo, la forza delle comunità che si organizzano e lottano, può essere una risposta. Non in termini astratti, ma molto concreti: è la difesa del territorio che si abita, dei luoghi che si attraversano, delle vite che si vorrebbero vivere, la potenza che va ricercata. Perché dentro quella potenza c’è un bisogno profondo di riappropriarsi delle possibilità di autodeterminarsi, di non sottostare con impotenza allo Stato e alle sue mille sfaccettature.
Dentro quella potenza c’è la possibilità di opposizione reale alla devastazione della guerra e del capitalismo, ma c’è anche la possibilità di immaginare e di iniziare a costruire un modo, un mondo, diverso.
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Il ponte infrastruttura militare, simbolo dell’estrattivismo. Combattiamolo
di Spazio No Ponte
Il governo Meloni ha sicuramente tanti demeriti, la guerra ai poveri, la cancellazione del reddito di cittadinanza e poi c’è Salvini il Ministro sempre attivo a portare avanti la sua campagna elettorale permanente. Paradossalmente, però, a questo governo dobbiamo dare il merito di avere dato la possibilità a un movimento molto importante di risvegliarsi e tornare a parlare alla gente e con la gente. E non di temi così, da poco, ma di come le comunità vorrebbero gestite le risorse – che sono le nostre risorse e non di proprietà del governo – e di come impedire che passi un ordine del discorso, ideologico ma anche molto pratico, che si sostanzia in un nuovo attacco da parte dello Stato e del Capitalismo italiano atto ad imporre dall’alto a Sicilia, Calabria e non solo, un modello di funzionamento della società, della politica, dell’economia di cui il Ponte è simbolo.
Un ordine del discorso che dice sostanzialmente questo: le città di Messina, Villa San Giovanni, Reggio, ecc, possono uscire dalla crisi economica e sociale in cui versano solo se accettano che i flussi di denaro pubblico vengano utilizzati per ingrassare qualche General Contractor, qualche studio professionale (ingegneri, architetti, avvocati) e qualche testata giornalistica. Mentre, invece, servirebbe potenziare la rete ospedaliera, mettere in sicurezza e potenziare le infrastrutture e più in generale mettere in sicurezza il territorio dal rischio sismico, idrogeologico e di disastro ambientale.
Diciamo questo anche perché spesso ci si dimentica del disastro di Giampilieri e Scaletta del 2009 o che Messina si trova a meno di 30 Km di distanza (venti minuti di macchina) da un Sito di Bonifica di Interesse Nazionale (SIN) che ha un’estensione pari a 550 ettari a terra e 1000 ettari a mare e interessa 5 comuni (Milazzo, San Filippo del Mela, Pace del Mela, San Pier Niceto e Monforte San Giorgio). E che in quest’area insistono (cito gli stabilimenti più grandi) la Raffineria di Milazzo, uno dei poli petrolchimici più grandi d’Europa, di proprietà Eni e Q8, una centrale Termoelettrica a oli combustibili, della Multiutility Lombarda A2a e le acciaierie Duferco.
E ci si dimentica che per esempio i comuni appena citati, insieme ad altri facenti parte del distretto Sanitario di Milazzo e del distretto sanitario di Barcellona pozzo di Gotto, per un totale di 26 comuni e circa 200 mila abitanti, possono contare in questo momento solo su un Ospedale ( un DEA di primo livello ) e di un solo pronto soccorso.
Questo per dare la misura di quanto siano infami, in particolar modo i deputati eletti con le clientele del nostro territorio, coloro che festeggiano per la conversione in legge del decreto ponte, un decreto in cui il governo dice che trova 14 miliardi per lavorare a un nuovo disastro del cemento, tra l’altro mentre in Emilia ancora spalavano fango e contavano i morti. Questo per tenere sempre a mente che gente abbiamo di fronte, cosa sia il Parlamento, cosa sia la Repubblica Italiana festeggiata fino a due giorni fa.
Citiamo questi dati perché altrimenti si rischia di non vedere il vero volto dello Stato nei nostri territori. Di non vedere la natura estrattivista e coloniale di queste politiche. Che poi è la ragione per cui siamo qui oggi. È sempre più chiaro che la lotta contro la realizzazione della Base a Coltano, se allarghiamo lo sguardo, non è diversa, dalla lotta contro il ponte, contro la realizzazione dell’impianto inquinante o del mega parco fotovoltaico o delle battaglie contro la chiusura di reparti o interi ospedali.
Tra l’altro se proprio vogliamo andare a trovare dei legami diretti, tra la battaglia contro la base qui e quella contro il ponte in Sicilia, basta restare proprio sul tema guerra.
Antonio Mazzeo ci ricorda, infatti, che « il nuovo Centro di comando e controllo dei droni AGS della NATO con 14 edifici (per una superficie netta complessiva di 26.700 metri quadrati) adibiti ad uffici, hangar rimessaggio/attrezzaggio dei velivoli spia, “con specifica impiantistica radio/dati per operazioni militari aeree specialistiche” lo ha realizzato nella base siciliana di Sigonella Webuild SpA (ex Salini-Impregilo), il colosso delle costruzioni che vorrebbe realizzare il Ponte sullo Stretto di Messina». E che « nella relazione presentata alle Camere il 31 marzo scorso dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini (di concerto con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti) si legge alle pagg. 1-2 che “Il Ponte sullo Stretto costituisce inoltre un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di importanti basi militari NATO nell’Italia meridionale».
Sanno che l’Europa potrebbe essere più propensa a trovare risorse per il ponte se guardato sotto questo aspetto e si giocano anche questa carta.
Insomma possono essere territori diversi, con contesti politici, sociali ed economici diversi ma è sempre più evidente una grande verità : i comitati, i movimenti in lotta contro ogni genere di grande opera devastante, nonostante le contraddizioni che possono portare con sé, sono forse l’unica possibilità di opposizione alla catastrofica avanzata della riproduzione capitalistica, a un modo di intendere i territori come luoghi di conquista, come merce da vendere per il profitto, e di conseguenza anche gli unici strumenti che abbiamo oggi per immaginare e praticare collettivamente un’organizzazione della società sostanzialmente all’opposto di quella in cui viviamo oggi.