Cu nesci… ‘mpazzisci.
Prima dell’Annessione del 1861 gli emigrati siciliani erano alcune decine: piccoli gruppi di contadini o di esiliati politici. I primi partivano alla ricerca di terre da coltivare, i secondi dovevano lasciare l’isola per sottrarsi alla repressione borbonica o perché condannati all’esilio. In quegli anni non esisteva l’emigrazione “economica”, come oggi si intende. I trasferimenti avvenivano solo all’interno dell’isola: ci si spostava dalla campagna ai centri urbani, dalle terre demaniali a quelle baronali o viceversa, dall’entroterra alle aree costiere.
Lo scenario si capovolse nel 1861, come diretta conseguenza della Annessione della Sicilia allo Stato sabaudo. Nel quadro mutato dei rapporti nazionali e internazionali un gran quantità di siciliani divenne merce di scambio tra le nuove potenze. Renda parla di una “esplosione migratoria”, in considerazione dei numeri raggiunti e mai registrati prima del 1861. Nell’ultimo ventennio del secolo emigrarono in America oltre centomila siciliani.
La migrazione si legava tanto alla crisi economica degli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, quanto alla repressione seguita ai moti popolari, che continuarono anche dopo la cosiddetta “unificazione nazionale”. Come scrive Enrico Deaglio in Storia vera e terribile della Sicilia: «Avvenuta senza fanfare e poco compresa, allora come oggi, quella siciliana verso la Louisiana e il Mississipi fu una deportazione di esseri umani concepita tra governi, allo scopo di realizzare uno dei più foschi progetti dell’era moderna. La Sicilia aveva aumentato di un milione e mezzo i suoi abitanti dai tempi dell’Unità d’Italia. I siciliani erano troppi, tra loro circolavano strane idee, volevano la terra, si ribellavano. I padroni americani si trovavano alle prese con un problema analogo. La guerra aveva affrancato quattro milioni di schiavi che ora non volevano più lavorare sotto la frusta. Bisognava liberarsene, trovare nuovi schiavi». E li trovarono in Sicilia!
Della drammaticità di quei movimenti migratori si è occupata anche la letteratura. La condizione dell’emigrato negli anni successivi al 1861 è descritta in un volumetto di Luigi Capuana Gli americani di Rabbato (1912): racconta di due fratelli siciliani che lasciarono le terre aride di Rabbato, attratti dalle prospettive del nuovo continente, e del ritorno di uno di loro deluso nelle aspettative. Capuana riconobbe le cause dell’emigrazione nella pesantissima tassazione che aveva impoverito l’intera popolazione all’indomani del 1861, nella leva militare obbligatoria e nella crisi agricola.
La depressione prodotta dal sistema coloniale e dal modello di produzione sta alla base del “traffico” di esseri umani e delle sue differenti destinazioni. Gli emigrati che fuggono dalla propria condizione di disoccupazione e miseria finiscono nelle officine dei paesi più industrializzati; schiavizzati! L’emigrazione ha la funzione di regolare i flussi di mano d’opera tra paesi a sviluppo diseguale. È questo il suo fine ultimo, dalla Annessione ai nostri giorni. Sebbene in un primo tempo tutte le regioni italiane fornissero emigrati ai paesi più industrializzati, ben presto la Sicilia sarebbe stata scelta perché più adatta allo scopo, il bacino più consistente di risorse umane.
L’emigrazione è, in generale, lo strumento più infame del colonialismo; si pensi agli arruolamenti forzati degli indiani o degli irlandesi nell’esercito dell’impero britannico, o alla deportazione degli algerini nelle fabbriche francesi nei primi decenni del XX secolo. La forza lavoro degli emigrati si è dimostrata il fattore decisivo dell’accumulazione capitalistica. Gli eserciti di sfruttati hanno origine dalla emigrazione coatta; una vera e propria deportazione di massa che favorisce lo sviluppo dei paesi colonizzatori e, al tempo stesso, aiuta a disfarsi delle contraddizioni sociali provocate dal dominio coloniale.
Frantz Fanon analizzò a fondo le conseguenze del colonialismo nella sfera psichica e affettiva di chi è costretto a emigrare. Come scriveva in un articolo intitolato Le syndrome nordafricain, chi emigra dal paese colonizzato a quello del colonizzatore diviene oggetto di razzismo e di rifiuto; costui “muore quotidianamente”, a causa della rottura dei suoi vincoli affettivi e dell’isolamento sociale da cui non riesce ad uscire. Dopo Fanon, non c’è studioso serio che non tenga conto delle conseguenze dell’emigrazione sulla personalità. In uno studio del 2002 Linda Reeder ricorda l’esodo delle migliaia di siciliani verso l’America, e i riflessi che questo ebbe sulla condizione femminile, per via dei mariti o dei figli partiti, come si dice, per “cercare fortuna”. Il tema della devastazione dei rapporti affettivi provocata dall’emigrazione non può essere ignorato.
Gli storici sono soliti dividere l’emigrazione siciliana in fasi; chi sostiene che sono tre, chi due, chi quattro. A noi interessa di più capire le differenze che hanno caratterizzato l’emigrazione, a partire dai soggetti sociali che ne sono stati vittima. I decenni successivi alla Annessione hanno visto una massiccia emigrazione dalla campagna: ad emigrare, in questa prima fase, erano braccianti e contadini colpiti dalla crisi agricola. Nel ventennio fascista, quando l’emigrazione verso l’estero fu impedita per legge a vantaggio di una emigrazione verso il Nord del paese, i siciliani emigravano verso le regioni del triangolo industriale. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la crisi di deruralizzazione della Sicilia e il sempre crescente sviluppo del terziario generò un esodo massiccio sia verso le fabbriche del Nord che di altri paesi europei (Francia, Germania, Svizzera e Belgio). In quegli anni le fabbriche erano alla ricerca di lavoro a basso tasso di specializzazione. Nel nuovo millennio, invece, l’emigrazione colpisce in prevalenza giovani diplomati e laureati che non riescono a trovare occupazione in Sicilia; essi sono più adatti alle nuove richieste di mano d’opera qualificata, di tecnici, di “cervelli”. Come si legge nei rapporti della SVIMEZ (2008-2015) è di questa mano d’opera che vengono private le aree marginali, è da qui che proviene la nuova e inarrestabile «desertificazione del sud italiano e, in maniera più preoccupante, della Sicilia».
La migrazione dei siciliani ha insieme natura sociale e coloniale. In questo intreccio si può comprendere la natura, la composizione sociale e l’entità dell’emigrazione siciliana. Essa si collega da una parte alla ineguale distribuzione del lavoro e della ricchezza, dall’altra allo sfruttamento coloniale delle risorse, anche umane. I telegiornali ribadiscono che nel 2018 il numero degli occupati in Italia è cresciuto di oltre 100 mila unità; tralasciano di dire, però, che quel numero scaturisce dalla differenza tra il Nord che cresce di 382 mila unità e il Sud che ne perde 276 mila. Tralasciano di dire che tra i fortunati che riescono a trovare un lavoro a termine i lavoratori giovani sono solo il 22% e che per questo l’emigrazione dal Meridione oggi colpisce in maggioranza i giovani tra i 20 e i 30 anni. La SVIMEZ nel suo rapporto sul Mezzogiorno (2018) riconosce che il Sud, e in particolare la Sicilia, ha perduto una quota consistente della sua popolazione giovane e in età di lavoro: « I deflussi di capitale umano verso il Nord e verso l’estero hanno provocato un grave depauperamento della struttura demografica e del tessuto sociale. Anche nel 2016, quando la ripresa economica ha cominciato a manifestare segni di consolidamento nel resto del paese, sono stati cancellati oltre 131 mila residenti, un quarto dei quali ha scelto un paese estero, una quota decisamente più elevata che in passato; come sempre più elevata risulta la quota dei laureati».
La condizione coloniale aggrava la situazione dell’emigrazione siciliana, anche rispetto al resto delle regioni “meridionali”. In Sicilia, infatti, le cifre sono più drammatiche che nel resto del Mezzogiorno: più disoccupati, più precari, più poveri, più emigrati. Qui non si emigra soltanto per cercare lavoro, ma anche per colmare carenze esistenti nei paesi d’arrivo. Ne è esempio la recente “deportazione” di migliaia di insegnanti siciliani nelle scuole del Centro-Nord.
Le città e i paesi siciliani stanno perdendo una impressionante quantità di abitanti, per lo più giovani. Ogni giorno dai paesi di molte provincie dell’agrigentino partono pullman pieni di nuovi emigranti per il Nord Italia e per l’Europa. In un paio d’anni, ad Aragona si è passati dai 13.000 residenti a meno di 9.000. In un paese come Sant’Angelo Muxaro il tasso di emigrazione è pari al 190%: infatti, dei 3853 abitanti di un decennio fa oggi ne sono rimasti 1326 – quasi i due terzi dei residenti sono scomparsi da quel pase e la dispersione sembra inarrestabile. La CGIL di Messina sostiene che dal 1991 al 2016 la popolazione è calata di 40.155 unità; se facciamo una media, ogni mese lasciano Messina 120 persone. A Palermo in soli sei anni si è passati da una popolazione di 686.045 a 668.405 (dati ISTAT), con una perdita media di 1.200 persone all’anno. In tutta l’isola i giovani laureati costretti ad abbandonare famiglie, amici e conoscenti raggiungono ogni anno tra le 10.000 e le 12.000 unità. Dalle anagrafi comunali della Sicilia mancano all’appello più di 150.000 iscritti. Siamo di fronte a un esodo di proporzioni bibliche, a sconvolgimenti del tessuto sociale e relazionale indotti dal nuovo modello produttivo; infatti, mentre si aggredisce l’economia dell’isola con servizi a basso tasso di lavoro, si cerca di compensare il deficit lavorativo obbligando la parte più attiva della popolazione ad emigrare.