Destrutturare la violenza, rompere gli argini
A seguito della violenza subita da una diciannovenne palermitana e dell’arresto di sette giovani indagati per stupro, centinaia di persone a Palermo sono scese in strada in solidarietà alla vittima lo scorso venerdi, ripercorrendo i luoghi in cui è avvenuto l’abuso. Giovedì prossimo a Catania è stata lanciata un’altra manifestazione, con appuntamento alle 18 a Piazza Stesicoro.
Prendere parola sulla vicenda è complesso e delicato mentre i giornali ricostruiscono la vicenda ancora e ancora, con morbosa attenzione, quasi a costringere chi legge ad assumere il compito del giudice inquisitore.
Ma vogliamo invitare alla riflessione, abbozzare un’analisi, inchiodare le responsabilità di un modello sociale che legittima quotidianamente la violenza.
La società patriarcale basata sullo sfruttamento e sulla prevaricazione forgia di continuo vittime e carnefici. Il capitale, di entrambe le costruzioni e i ruoli – sia quello del dominatore che da quello della vittima – studia e codifica emozioni, attitudini, comportamenti, li socializza, ne storicizza le figure, li rende riproducibili, per garantirne il funzionamento e la conseguente messa a valore.
Il modello sociale che ne consegue è basato sulla violenza e l’assoggettamento, non risparmia niente e nessuno: è la dialettica del rapporto di forza, del conflitto sottile, celato, pervasivo, dispiegato sui territori, che ci vede tutti e tutte in gioco, consapevoli o meno, con le nostre relazioni interpersonali, i nostri pensieri e azioni, su un terreno di gerarchie e di oppressioni che si intersecano. Una fitta rete di immagini, codici e convenzioni in qualche modo determinano le nostre scelte e preferenze, tramite una rappresentazione iperrealistica, nitida, amplificata, iperbolica, verosimile – ma non per questo reale – di ciò che dovremmo desiderare, di come dovremmo pensarlo e poi farlo.
La raffigurazione mediatica del concetto di ”tempo libero”, di ”amore”, di “sessualità”, di “piacere” diventa sempre più stereotipo, quasi impraticabile nella realtà ma di cui tutti conosciamo la spettacolarizzazione. Ed è così che le finzioni esasperate e vivide osservate tramite uno schermo – social network, talkshow, pornografia – costruiscono un benessere di superficie, in un rapporto sempre più individualistico e frammentato, perché ognuno in fondo è solo, a relazionarsi con le sue identità digitali. Uno schermo da cui apprendere quotidianamente che in realtà viviamo in pace, che non esiste l’odio razziale, non esistono la violenza di genere né i conflitti tra blocchi sociali, tra colonizzati e colonizzatori, tra vittime e carnefici. Esiste solo la loro rappresentazione, lontano da noi, qualcosa che scorre velocemente sullo schermo, in superficie, per poi perdersi nel vortice delle informazioni e delle immagini. In altre parole, una società che costruisce sistematicamente al proprio interno le cause delle disparità e diseguaglianze, delle stragi in mare, delle violenze tra le mura di casa, gli stupri, gli abusi, le morti sul lavoro, prova poi a convincerci che questi siano fatti eccezionali lontani dalla realtà, che siano anomalie, colpi di testa di criminali che con noi non hanno niente a che fare.
In fondo, se le cose stanno così, che bisogno avremmo di costruire un’autodifesa, una risposta che parta dai territori e che sia in grado di rompere l’indifferenza e di impedire che questi avvenimenti riaccadano?
A ognuno di noi spetta in ultimo la possibilità di agire in una direzione piuttosto che un’altra, certo. Ma sempre dentro una cornice che ci colloca tra le categorie di cui sopra, o “vittima” o “carnefice”, o entrambi in modo ambivalente. Per questo non è sufficiente sbattere il mostro in prima pagina, ad ogni stupro, omicidio, abuso, premurandoci di prendere le distanze da quello stesso modello sociale di cui siamo intrisi e accerchiati anche noi che ha creato la cosiddetta “mela marcia”. Né tantomeno invocare ulteriore repressione, punizione, condanna da quegli stessi organismi giudiziari e polizieschi volti alla riproduzione infinita della violenza come struttura fondante di questo modello di sviluppo.
Le istituzioni attuali, funzionali al mantenimento delle attuali gerarchie sociali, mancano il compito fondamentale di costruire comunità attorno ai veri bisogni delle persone, anzi agiscono come strumenti di frammentazione, ostacolando compattezza, appartenenza e solidarietà.
La società della repressione sferra quotidianamente attacchi alla nostra vita, ai nostri legami, alla nostra terra, ai nostri corpi. Per questo non possiamo farci trovare impreparati, isolati, storditi, indifesi sul campo di battaglia, ma dobbiamo armarci, prepararci al peggio, guardarci le spalle a vicenda, ricostruire un’appartenenza mentre distruggiamo collettivamente, pezzo dopo pezzo, il destino che ci è assegnato come individui -né vittime, né carnefici.
Indipendenza ed emancipazione esistono solo come valori collettivi di ribaltamento degli attuali modelli di riproduzione sociale, sta a noi – dentro casa, a scuola, sul posto di lavoro, nei territori – forgiarli come armi per rompere gli argini della cultura del dominio e della sopraffazione.
E costruire comunità e legami di solidarietà significa anche rispondere collettivamente agli attacchi. Come è stato fatto durante l’appuntamento lanciato a Palermo dal coordinamento Non una di meno: in centinaia hanno ripercorso le strade dell’accaduto per ribaltare una narrazione mediatica che come un rampicante si insinua nelle piu’ infime fessure, alla ricerca spasmodica del particolare da dare in pasto al pubblico. Allora torniamo per le strade, fuori dagli schermi, spegniamo telefoni e tv, rompiamo il muro di indifferenza, immaginiamo e costruiamo un nuovo mondo.
I prossimi appuntamenti saranno domani, mercoledì 23 agosto, presso la sede Uaar di via Matteo Bonello 39 a Palermo per un’assemblea pubblica e giovedì 24 agosto alle ore 18:00 a Piazza Stesicoro, Catania.