Domani si vota in Catalogna.
Si vota dentro la più grave crisi istituzionale di uno Stato come mai s’è visto nelle democrazie europee, un conflitto tra potere centrale, nazionale e sue espressioni regionali, con l’impiego della forza pubblica l’1 ottobre contro gli elettori chiamati a esprimere un’opinione in un referendum, l’arresto di dirigenti politici e culturali, la fuga di altri – tra cui il presidente della Generalitat, il parlamento catalano, e alcuni suoi ministri – per riparare all’estero da mandati di cattura che li accusano di sedizione e ribellione, la stessa accusa che colpì l’autore del fallimentare colpo di Stato in diretta tv del 1981, il colonnello Tejero.
C’è un forte pregiudizio e un curioso paradosso nell’opinione democratica e di sinistra che critica duramente tutto il processo di indipendenza catalano: quello di appellarsi – contro il paventato formarsi di un nuovo staterello, di un aumento del neo-nazionalismo e delle voglie di “piccole patrie” – a quella stessa Europa a cui non sono mai mancate, da questa stessa parte, critiche per il suo governo dall’alto, lontano, indifferente alle realtà e alle difficoltà dei territori reali; e, inoltre, di sostenere in definitiva il primo ministro spagnolo Rajoy e il suo Partito popolare che, di certo, non hanno mai brillato per essere campioni di democrazia e progresso sociale, avendo peraltro ereditato da sempre, dalla famosa “transizione” del dopo-Franco, tutto l’elettorato di destra. Come dice Alba Rico, un intellettuale vicino a Podemos: «La Spagna è l’unico paese europeo in cui non è necessario essere antifascisti per essere democratici». Paradosso accresciuto dal fatto che tutto il variegato mondo dell’indipendentismo catalano si è sempre considerato “europeista”; anzi, aveva fatto dell’appello all’Europa e di un possibile sostegno alle loro richieste una delle chiavi di volta per mettere in difficoltà Rajoy; che la cosa non sia accaduta, e anzi, tutto il contrario, se dimostra per un verso la fragilità “strategica” della politica catalanista, dall’altro testimonia, una volta di più, che quest’Europa è sorda alle questioni “del basso”. Il pregiudizio, infine, non tiene conto di un dato essenziale per orientarsi nel fracaso catalano: cioè, che v’è una forte presenza di un pensiero e di una politica democratici e di sinistra che se forse non sono egemonici di sicuro sono stati, almeno sinora, in grado di orientare il percorso sociale e persino l’azione di governo. È qui che il processo costituente dell’indipendenza è considerato come un’opportunità democratica.
Quella di uno scontro tra nazionalismi – uno più grande e riconosciuto, uno più piccolo e privo di legittimità – è una narrazione da spanishness, da spagnolitudine: in questa narrazione, Rajoy è sicuramente riuscito a compattare la maggioranza dell’opinione pubblica, del potere economico, dei media spagnoli. Anche perché l’unica forza politica fuori dal coro, ovvero Podemos, che pure ha una diramazione forte in Catalogna – Podem En Comù, e il sindaco di Barcellona, Ada Colau – non è stata in grado, dopo un tentativo fallito di mettere assieme numeri in parlamento spagnolo per formare una nuova maggioranza che destituisse Rajoy, di articolare un discorso capace di incidere quando le cose sono precipitate, e è rimasta schiacciata e impotente tra la richiesta di un referendum sull’indipendenza con tutti i crismi della legalità e il disconoscimento di ogni processo di indipendenza già in atto. Rajoy ha avuto partita facile, in Spagna.
La «Jornada», quotidiano catalano guidato da una cooperativa di giornalisti, ha intervistato alcuni tra i protagonisti della campagna elettorale e del percorso indipendentista. Peraltro, colpisce la giovane età di questa nuova classe dirigente e la forte presenza femminile. È interessante riportarne alcuni stralci, perché ne risaltano aspettative dopo il 21 D, ma anche i rapporti tra le diverse formazioni politiche indipendentiste.
«Dall’intervista a Gerard Gómez, numero 19 della lista di ERC (Esquerra Republicana de Catalunya).
Nessuno metteva in dubbio la vittoria di ERC qualche settimana fa, ma le previsioni ora sono più caute. La campagna elettorale è durata troppo a lungo?
Abbiamo iniziato la campagna emotivamente molto colpiti. Con i capi della lista imprigionati. Ma nel corso della campagna siamo riusciti a superare questi problemi. A poco a poco, l’entusiasmo della gente è cresciuto. C’è anzi una tendenza al rialzo.
Junts per Catalunya (la formazione politica di Puigdemont) è… un avversario politico? Un rivale elettorale?
È un partner con cui abbiamo fatto una parte del cammino per arrivare qui. Ma oggi siamo presenti in liste separate. Questo ci rende avversari o rivali? Elettoralmente siamo diversi, ma Junts non è il rivale da battere. Noi vogliamo convincere quelli che non sono ancora indipendentisti. Non è una gara tra di noi.
Dall’intervista a Vidal Aragonés, numero 3 nella lista della Candidatura dell’unità popolare (CUP).
I sondaggi vi danno tra sette e undici parlamentari. Sarebbero risultati migliori rispetto alle ultime elezioni, anche se si pensava che per la vostra difesa del referendum sull’autodeterminazione avreste migliorato i risultati. Quali sono le ragioni dietro a queste ipotesi?
Non ci preoccupiamo troppo dei sondaggi. Siamo piuttosto preoccupati che da un punto di vista oggettivo si possa rendere reale la Repubblica e attuare un programma di risposta non solo ai tagli, ma alla povertà praticamente cronica che esiste nel paese. Siamo più preoccupati del movimento che dei risultati che possiamo ottenere. Come movimento, una delle questioni che abbiamo molto chiaro è che se siamo forti nelle istituzioni possiamo facilitare questo processo. Piuttosto che sui sondaggi, ci concentriamo sull’accumulo di forze nel processo di auto-organizzazione per rendere reale la Repubblica.
Dall’intervista a Elisenda Alamany di Catalunya En Comú Podem, che respinge le accuse di equidistanza e afferma che En Comú Podem ha la chiave per il prossimo governo della Generalitat.
Secondo l’ultimo sondaggio, otterreste l’8,6% e 9 seggi, peggiorando i risultati del Catalunya Sí Que Es Pot (CSQEP) del 2011. Nei termini in cui è posto adesso, il dibattito vi sommerge?
Prima di tutto, dobbiamo dire che i sondaggi non sono mai stati a nostro favore. Nel 2015, a En Comú Podem ci davano come quinta forza e siamo diventati i primi. È vero che siamo in uno scenario estremamente polarizzato. Questo scenario non solo perde il contenuto politico nel dibattito, ma alla fine queste elezioni sono di nuovo impostate come un plebiscito. E questa è una brutta notizia. Crediamo che dopo tutto questo tempo avremmo dovuto fare una revisione di ciò che è accaduto e mettere in comune come far avanzare il dibattito non solo nella chiave nazionale, ma anche nella chiave sociale, che per noi è il grande dimenticato di questi ultimi diciotto mesi. Sfortunatamente, nell’asse nazionale, abbiamo due posizioni che non condividiamo: da un lato, continuiamo con l’unilateralità, dall’altro lato, che non succede nulla e continuiamo con lo status quo».
Silenzio, si vota. Va in scena la Catalogna.