I numeri li conosciamo. È il momento di invertire la rotta.
Dopo le anticipazioni estive, è uscito il rapporto SVIMEZ del 2019. Il quadro economico e sociale delineato per il Sud e la Sicilia è drammatico.
L’ultimo rapporto Svimez ci fornisce una fotografia quasi desolante della condizione economica e sociale della nostra Isola. Aumenta il divario con il centro-nord. In assenza di crescita e sviluppo, l’unica strada tracciata per i siciliani e le siciliane porta lontano da questa terra.
Il rapporto prevede che entro il 2065 si registrerà una diminuizione drastica della popolazione: 3.914.003 abitanti rispetto agli attuali 5.026.989.
Non ci addentreremo nell’analisi dei numeri e delle percentuali – quelli degni di nota non sono differenti da quelli riportati nelle anticipazioni (ne abbiamo parlato qui).
Una cosa che va immediatamente sottolineata è che il tema dell’emigrazione ottiene l’attenzione di politici e commentatori solo a seguito della pubblicazione di rapporti di questo genere. Ministri e governatori spendono qualche parola, forzano due o tre lacrime di coccodrillo e il sipario si chiude. La recita termina nel giro di pochi giorni, per poi riprendere all’uscita del rapporto successivo.
I finti buoni propositi si scontrano con la triste realtà che, tra l’altro, loro conoscono benissimo: non tutta l’Italia può avere gli stessi standard produttivi e lo stesso tessuto economico. Nella società dove è più bravo chi sa attrarre maggiori flussi economici, solo alcuni territori possono riuscire nell’impresa a scapito di altri.
Negli ultimi trent’anni (e non solo) la classe dirigente italiana (composta da correnti e gruppi di interesse in competizione tra loro) ha puntato tutto su alcune aree del centro nord provando a farle rimanere competitive dentro il mercato dell’Europa a più velocità. Questo mentre cambiavano radicalmente i paradigmi di accumulazione di capitale, la struttura della forma Stato e, a cascata, il rapporto con il consenso e la geografia della produzione. Non si poteva mantenere tutto quello che c’era, qualcosa andava sacrificato. E le aziende, quelle grosse, le hanno chiuse al Sud e in Sicilia.
Qui interi distretti sono stati letteralmente abbandonati. Fabbriche chiuse e operai lasciati sospesi tra il licenziamento e la cassa integrazione – il caso Blutec a Termini Imerese ne è solo un esempio.
I territori come la Sicilia, servono solo come serbatoio di gente da mettere a valore al nord o altrove.
Hanno dovuto razionalizzare, insomma, e l’hanno fatto a spese nostre. Questo è. Questa è la forma e la struttura organizzativa dello Stato italiano; sarebbe pure l’ora che i cari ministri siciliani lo ammettessero, invece di continuare con questa farsa.
Se non ribaltiamo la situazione non andiamo da nessuna parte. Le previsioni dello Svimez si avvereranno, ma solo se tutto rimane così com’è. Per evitare che ciò avvenga dobbiamo incidere sulla realtà, liberarci dai rapporti di sfruttamento ed estrazione di risorse che legano il nostro territorio allo Stato centrale.
Qualcosa che spinge verso questa direzione si sta già muovendo. Nelle ultime settimane è nata e si è diffusa in tutta la Sicilia una campagna che si pone l’obiettivo di imporre nel dibattito pubblico il tema dell’emigrazione forzata dalla Sicilia: “Si resti arrinesci”. Chi porta avanti questa campagna dice che vuole fermare questo esodo e che il conseguimento dell’obiettivo dipende da noi, dai siciliani e dalle siciliane.
Da qui dobbiamo cominciare per andare avanti. Da qui possiamo partire per costruire un movimento che sia davvero di liberazione.