Elezioni, rappresentanza politica e nuove istituzioni. Che fare?
Dopo le file chilometriche, le attese interminabili e i seggi chiusi le amministrative siciliane sembrano già essere un lontano ricordo, soprattutto per chi non le ha vissute da protagonista o per chi non le ha considerato proprio.
Come leggere l’astensionismo
I Comuni al voto in Sicilia erano circa il 30% e tra questi due grandi città, Palermo e Messina, animate da (tutto sommato) pacate campagne elettorali che non sono però servite a contenere il peso dell’onnipresente – solito – protagonista: l’astensionismo.
Gli accorati appelli alla partecipazione non hanno convinto i siciliani e le siciliane a recarsi alle urne: Messina ha registrato l’affluenza più bassa di sempre (55,64%), ben lontana dal 65,01% registrato nel 2008.Non è andata molto meglio a Palermo. Qui i maldestri ricatti morali giocati sull’asse mafia/antimafia e le polemiche, hanno convinto solo il 41% circa dei cittadini, dieci punti percentuali in meno rispetto a dieci anni fa.
Come sempre, il dato dell’astensione va letto e interpretato come un dato politico. Diciamo però che lo è ancora di più nel caso delle elezioni amministrative dove ancora non si erano raggiunti, ad eccezione di Palermo, le alte percentuali che si registrano ormai da un decennio per le regionali e le politiche. Inutile tirare in ballo la disaffezione cronica, il distacco dalla “politica” con la P maiuscola, la sfiducia verso le istituzioni: si tratta di dati strutturali che chiunque si interessi di politica in Sicilia è stanco di commentare. In più, oggi, crediamo si tratti di leggere le percentuali dell’astensionismo guardando a trasformazioni politiche ed economiche più complessive e che riguardano un movimento costante e continuo di centralizzazione e allontanamento del potere decisionale dai territori, con Comuni sempre più privi di risorse, competenze, servizi, infrastrutture, alle prese con dissesti e buchi di bilancio e quindi spesso anche incapaci di essere interlocutori, strumento di miglioramento delle condizioni di vita per gli abitanti.
Una debolezza costruita e riprodotta strutturalmente da decenni di politiche nazionali, che hanno ridotto all’osso i trasferimenti Stato-enti locali, e dalla classe politica nostrana che ha sempre cannibalizzato le risorse per costruire consenso e clientela.
In queste condizioni chiunque amministri finisce per deludere gli elettori. Così, la percentuale di chi si astiene cresce di elezione in elezione.
Palermo e Messina: due storie diverse solo apparentemente
Messo da parte l’astensionismo, le competizioni elettorali nelle due città metropolitane, attraverso i risultati degli scrutini, raccontano solo apparentemente due storie diverse. È vero, a Palermo vince il centro destra, con Lagalla, a mani basse, mentre a Messina De Luca consolida la sua macchina elettorale, fa vincere Basile, e il centro-destra arriva secondo. Ma le partite giocate nei due capoluoghi, hanno a che vedere inevitabilmente con le Regionali che si terranno in autunno e, di conseguenza, con gli equilibri politici nazionali, visto che in primavera si terranno le politiche. Ed è sempre così, queste tornate elettorali isolane, sono un importante laboratorio politico.
Escluso un centro-sinistra in crisi di identità che non brilla né a Palermo né a Messina e che a breve si appresta a delle primarie (per le elezioni regionali) che comunque non accenderanno l’entusiasmo degli elettori, le vittorie di Lagalla e Basile indeboliscono Musumeci e la sua possibile ricandidatura. Certo la partita è ancora aperta – e De Luca, dopo la netta vittoria di Messina, vuole far pensare di avere le forze per andare da solo ed essere competitivo a prescindere da quello che decideranno gli altri – ma tutto ci dice che gli attori in campo sono lontani dall’aver trovato gli equilibri definitivi e che probabilmente dovremo aspettare ancora un po’ prima di avere un quadro chiaro delle candidature.
Sull’opportunità di attraversare il piano istituzionale
C’è poi un altro aspetto che ha meno a che vedere con le dinamiche di partiti e gruppi di potere, che è la riflessione intorno allo strumento elettorale dal punto di vista di quelle soggettivitá che si pongono l’obiettivo di scompaginare il quadro politico e di potere esistente o che si va configurando. E l’esperienza di chi ha partecipato attivamente a questa tornata elettorale, ma che si colloca sul terreno della trasformazione sociale può essere utile in questo senso.
Non c’è alcun dubbio che i risultati raggiunti siano stati modesti. D’altronde, anche quando questi sono stati significativi, sul piano nazionale, europeo e globale, spesso gli esiti, nell’azione di governo, sono stati deludenti.
È, infatti, sul perché questo avviene e sull’opportunità di continuare ad attraversare il piano istituzionale che dobbiamo ancora interrogarci.
Senza volere, in poche righe, trarre conclusioni o trovare una lettura unitaria e definitiva del fenomeno, non si può non registrare il fatto che il piano del Governo all’interno di un più vasto sistema di relazioni istituzionali, finanziarie e politiche finisce per condizionare anche le esperienze con le migliori intenzioni. È come se, una volta eletti, i dispositivi legali e i vincoli finanziari avvolgessero le nuove esperienze in un tale sistema di condizionamenti da rendere impossibile un’azione autonoma.
La domanda che rimane è se ci sia una via di fuga a questo processo di integrazione o se lo strumento elettorale non sia inutilizzabile ai fini di una trasformazione radicale della società.
Costruire, costruire, costruire
Senza dubbio crediamo ancora essenziale portare avanti un ragionamento teorico e pratico intorno alle istituzioni. Non solo quelle che sono articolazioni locali dello Stato; abbandonate a se stesse, svuotate, rese inefficienti e incapaci di erogare servizi minimi. E non solo intorno alla possibilità di “prendersi”, partecipando alle elezioni, queste istituzioni.
Fondamentale resta nonostante tutto e anzitutto, costruire a prescindere dalle tornate elettorali, le istituzioni dell’autogoverno dei territori. Quelle degli abitanti e non dello Stato, delle comunità e non dei partiti nazionali, per organizzare la società in funzione dei bisogni e le necessità dei territori e non in funzione del mercato globale e del profitto.