Fanno il deserto e lo chiamano turismo

Fanno il deserto e lo chiamano turismo
È il mese di luglio 2023 e migliaia di persone vivono un incubo a occhi aperti. Mentre le temperature percepite in Sicilia superano regolarmente i 45 gradi, un guasto colpisce la rete elettrica catanese e tanti quartieri si ritrovano improvvisamente senza luce né acqua.

Nello stesso periodo centinaia di incendi indomabili divampano nel palermitano e nell’entroterra siciliano. La portata dei roghi, la loro diffusione e l’assenza totale di mezzi e personale adatto a fronteggiarli non lasciano agli abitanti delle contrade altra scelta se non quella di contare sulle proprie possibilità, il proprio coraggio e la propria capacità di autorganizzazione. Così è stato ed è ancora. Dalla crisi dell’infrastruttura elettrica catanese, fino all’onnipresente minaccia incendi – chiamata da molti “allarme piromani” –  anche oggi l’estate siciliana continua a far parlare di sé.

 

Un anno dopo sono le immagini del lago di Pergusa prosciugato e scomparso dalle mappe a fare notizia.

La siccità ha offerto ai reporter delle più grandi testate internazionali l’imperdibile opportunità di rappresentare la Sicilia con le immagini e le parole che amano di più – sofferente, esotica, immersa in un fatalismo gattopardiano, immobile di fronte ad un destino ineluttabile. I protagonisti imprevisti di questa nuova estate di fuoco sono gli agricoltori siciliani, la loro “pelle scura bruciata dal sole” – come li dipinge uno stucchevole New York Times – e  la loro disperazione: le colture compromesse, gli animali al macello e lo sguardo perso nel vuoto. Purtroppo, al di fuori di questa narrazione, poco rimane della problematizzazione politica di questo presente fatto di un entroterra sempre più desertificato socialmente, di campagne abbandonate, di comunità e mestieri che faticano a riprodursi nella Sicilia dell’emigrazione da un lato e del turismo dall’altro

Insieme agli agricoltori, è proprio l’economia turistica a occupare inaspettatamente il centro della scena nel dibattito sulla siccità.

Mentre la crisi idrica morde e lascia città e piccoli centri a chiedersi quanto ancora si potrà andare avanti così, la preoccupazione del governo regionale e di tante amministrazioni locali è quella di rassicurare i turisti e gli imprenditori del settore ricettivo.

Da parte sua, Schifani urla al complotto e invita i turisti a stare sereni. Con fare sfidante il presidente incalza: «mi faccia il nome di un albergo rimasto senz’acqua». Duole dire che Schifani ha probabilmente ragione – ma non ci rallegriamo certo con lui. Le scarse risorse idriche siciliane e le fatiscenti infrastrutture dell’acqua vengono spremute all’osso per tenere a galla un’economia turistica predatoria e selvaggia che in Sicilia sta riducendo a brandelli le città, le coste, le montagne. E assetando gli abitanti.

L’isola si trova da marzo in stato di emergenza – l’ennesima, in territori che della politica dell’emergenza ci hanno fatto l’abitudine. Nonostante ciò, già a giugno 9 comuni del nisseno erano senz’acqua, mentre a luglio tra i vertici Amap si pianificava una politica di razionamento nel palermitano. Nel frattempo, nell’agrigentino non si prova neanche più a nascondere che l’acqua viene dirottata ai bed and breakfast, lasciando gli abitanti a fare i conti con i rubinetti asciutti. Una menzione speciale non può che andare a Messina: nella città dello Stretto le migliaia di persone lasciate regolarmente senz’acqua sono le stesse che devono sopportare la cialtroneria criminale di chi blatera ancora di Ponte sullo Stretto.

 

Dietro l’arroganza Schifani, accompagnata dagli scarica-barile di rito, si nasconde la patetica lagna di chi teme che il giocattolo possa rischiare questa volta di rompersi davvero.

Come spesso accade, infatti, i discorsi e le politiche che si sviluppano attorno all’“emergenza” rivelano molto più di quanto vorrebbero. In questo caso, il boccheggiamento scomposto e il panico malcelato del governo attorno alla questione del turismo ci racconta della programmazione a breve e lungo termine per la Sicilia: un territorio che deve lavorare sodo per mantenersi luogo di consumo e di passaggio. Un territorio che basa sempre più la propria sopravvivenza sull’economia regolata da sprovveduti avventori alla ricerca di sole, mare, arancinə; sui lavori stagionali di merda a 3 euro l’ora; sulle spiagge e riserve inaccessibili, privatizzate e sempre più inquinate.

È bene dirlo subito e chiaramente: che si tratti di crisi dell’acqua, del fuoco o della munnizza, per i governi gli abitanti possono crepare. La “crisi”, infatti, diventa visibile ai loro occhi solo quando tocca interessi particolari e specifici segmenti di mercato; fino a quando non rimarrà più nulla da sacrificare, più acqua da razionare, più città da visitare, più cibo da gustare. Spaccati tra due narrazioni – quella esotizzante e pietistica della stampa e quella paracula e complice dei governi – ai territori siciliani non rimane altra scelta se non quella di narrarsi in modo indipendente, agire le crisi permanenti in cui sono immersi e smascherare i venditori di fumo del turismo e dell’economia predatoria che sulla Sicilia vorrebbero ancora banchettare.

 

 

 

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