Fumation Day.
A fine luglio, mentre i palermitani boccheggiavano per il caldo, mentre le montagne bruciavano e la munnizza olezzava intorno intorno, per le strade di Palermo si celebrava il Graduation Day, alla presenza di qualche centinaio di neolaureati. In grande pompa, avvolta negli ermellini, fotografata dai turisti di passaggio, una piccola schiera di accademici, in fila, usciva dal palazzo dell’Inquisizione e scivolava per le assolate viuzze del Mandamento Tribunali. Apriva la fila il rettore Micari seguito, nell’ordine, da prorettori vicerettori subrettori. Indossavano tutti quel morbido ermellino che, se è scusabile nella fredda Oxford, risulta ridicolo dentro la fornace palermitana. Per ultimi, a debita distanza, i neolaureati in disciplinato corteo, con in testa berretti di cartone diversamente colorati.
Insomma, una bella festa! Peccato che qua e là c’era sentore di fumo negli occhi. Una festa bella, certo, condita però di malvagia intenzione: ingannare lo studente nel momento in cui, conclusi finalmente gli studi, vorrebbe rendersi utile, contribuire al benessere suo e della sua terra.
Non appena fila e corteo giungevano a piazza dei Vespri, il rettore raggiungeva il marciapiede più alto e si impossessava del microfono. Si dava fiato alle trombe. Il rappresentante del Comune annuiva, i subrettori applaudivano, gli studenti ascoltavano incerti tra il gaudio e l’afflizione. Nella foga del momento, il rettore volle richiamare la peculiarità palermitana del modo di insegnare: un “metodo palermitano” di fare università, non meglio identificato. Si tratta forse, rettore Micari, di quello stesso metodo che di recente è stato bocciato dal CENSIS, che classifica l’università di Palermo tra le peggiori per servizi e strutture, e ultima per qualità e capacità di reclutamento? Cosa avevano da applaudire a tanta menzogna i prorettori vicerettori e subrettori? Cosa aveva da annuire il rappresentante del Comune? Non contano, per costoro, i dati forniti dai centri di ricerca statistica?
Alla fin fine, però, si fosse trattato solo di ingannare i presenti sui dati CENSIS, la festa sempre bella sarebbe sembrata! Non fu così. Perché dalla bocca del rettore venne fuori un’altra nuvola di denso fumo, questa volta molto irritante per gli occhi dei presenti. Il rettore, zufolando al microfono, pronosticava: «Laurearsi a Palermo non è un handicap per l’inserimento nel mondo del lavoro». Applausi dalla platea di accademici, qualche perplessità tra i neolaureati. Dice vero, signor Micari? La zufolata nascondeva un dato inequivocabile, di cui poco si parla: nelle tre università statali siciliane, nel corso del 2017 si sono laureati all’incirca 19mila studenti. In quello stesso anno, dalla Sicilia si contano 75mila laureati emigrati. Sono tutti quelli che, malgrado le ingannevoli parole dei rettori, da anni tentano di entrare nel mercato del lavoro, senza riuscire; quelli che sono costretti a lasciare l’isola; che gravano sull’economia dell’isola finché studiano ma le cui competenze saranno spese altrove.
Prima di concludere il saluto, un ultimo sbuffo di arrogante fumo rettorale: «La nostra università esce dalle mura per mostrare alla città la propria ricchezza». Di quale ricchezza parlava Micari? Se voleva riferirsi alla ricchezza culturale dell’ateneo, forse non aveva messo in conto le tante competenze che l’ateneo palermitano mortifica nel suo cammino nepotista e direttoriale; forse alludeva soltanto ai pochi e superselettivi laboratori e centri di ricerca, buona parte dei quali asserviti all’impresa privata. Se, invece, voleva riferirsi alla ricchezza economica, allora fingeva di dimenticare i continui tagli nei fondi di dotazione che Roma destina a Palermo e che lo scorso anno hanno raggiunto i 10 milioni di euro.
La piazza del Vespro era ormai satura di fumo. La realtà veniva sbarrata alla vista, la verità si dissolveva nella nebbia di un patetico Graduation Day. Tra gli applausi si è consumato uno spettacolo menzognero. Forse è vicina l’ora in cui gli studenti palermitani saranno in condizione di ricostruire una “cultura”. Le nebbie, i fumi, a un certo momento si dileguano e le cose tornano come sono, al loro vero posto. Tornano i costi sempre più alti degli studi; la mancanza di alloggi; tornano i fantasmi della disoccupazione, del precariato, dell’emigrazione; la cultura di classe, lo strapotere accademico, l’inefficienza amministrativa, la mancanza di centri di ricerca aperti, l’inefficienza dei servizi. Solo quando nebbie e i fumi si saranno diradati, quando la realtà apparirà per come è, allora potrà nascere una nuova cultura, creativa, libera, efficace. Una cultura, un sapere, indipendenti dall’accademia goliardica, bugiarda e tronfia. Una cultura e un sapere capaci, questi sì, di riparare le storpiature del presente.