Il “compagno Togliatti”, e noi
lanfranco caminiti
Il 3 settembre 1944 esce su «l’Unità», giornale del Partito comunista, un articolo a firma di Palmiro Togliatti, che ne è il segretario, dal titolo: Il popolo siciliano ha sete di libertà e fame di terra.
L’Italia è in piena guerra civile: il Nord è occupato dai tedeschi e amministrato odiosamente dalla Repubblica fascista di Salò contro cui combatte la Resistenza; nel Sud, a luglio dell’anno precedente, c’è stato lo sbarco delle truppe degli Alleati anglo-americani che sono avanzate molto lentamente – solo ora sono arrivate a Roma – e in Sicilia, che tutti considerano strategica per qualsiasi assetto geopolitico futuro, hanno preso in mano le redini dell’amministrazione, combinando pasticci e impicci.
I Savoia, dando ennesima prova della loro ordinaria viltà, sono fuggiti da Roma verso Brindisi, il giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre, imbarcando alla bell’e buona un po’ di gente al seguito, e il maresciallo Badoglio, capo del governo. Ma la svolta – la sospensione della questione monarchica, l’accettazione di un nuovo governo rappresentativo di tutte le istanze, il rinvio a una Assemblea costituente – l’ha impressa Togliatti appena arrivato dalla Russia. Ha lasciato sconcertati socialisti, liberali e cattolici, oltre che i suoi a Salerno a aprile, ma la sua mossa è concordata con Stalin. Proprio a Salerno si è formato una sorta di Governo provvisorio con un Consiglio dei ministri. Ora, tutti i partiti ne fanno parte.
L’articolo di Togliatti si occupa del separatismo siciliano che già da un anno si è dato un’organizzazione, ha sviluppato propaganda, ha organizzato manifestazioni, ha acquisito un enorme seguito. È un momento delicato e straordinario: mentre da un lato tutti gli sforzi sono concentrati sulla liberazione dell’Italia e la fine del fascismo, tutte le forze in campo – gli Alleati, i Savoia, i partiti politici – immaginano il futuro assetto dello Stato e la collocazione internazionale dell’Italia. Quello che sta accadendo in Sicilia acquista dunque una importanza straordinaria, perché qui si riassume, improvvisamente, tutto quello che verrà, mentre c’è ancora un mondo da sconfiggere e uno da conquistare, una storia da superare e un’altra da scrivere.
Il Partito in Sicilia è apertamente ostile ai temi del separatismo (i socialisti lo sono ancora di più) – vede coagularsi in esso troppe facce del passato maledetto, latifondisti, baroni, potenti. Non dappertutto è così: ci sono comunisti che lavorano insieme a indipendentisti, anche perché nel movimento indipendentista ci sono correnti, e uomini, aperte alle questioni del lavoro, della terra, della libertà.
La storia del Partito comunista con le questioni dell’autonomismo è abbastanza complessa. Gramsci, già nel 1926, aveva posto la questione con chiarezza, sia riflettendo sul Risorgimento e riattraversando la storia pre-unitaria dell’Italia sia ragionando sulla Questione meridionale. Come ricorda Paolo Perri in Nazionalità e lotta di classe. La nuova sinistra e i nazionalismi periferici, il Partito nel Congresso di Colonia del 1931 aveva approvato un Programma d’azione che contemplava, nel futuro, «la costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna, nella Federazione delle Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia». Il “modello sovietico” – e le Repubbliche dei Consigli dei tentativi insurrezionali nel centro Europa degli anni Venti – sembrava prevalere come riferimento da adottare, ma soprattutto il dirigismo centralista messo in opera dal fascismo, e lo spirito nazionalista e imperialista che lo animava, rappresentava il modello negativo da respingere.
Ma da allora molte cose erano cambiate, il mondo era cambiato. Anche il mondo comunista. L’ispirazione repubblicana e federalista dei comunisti italiani si era andata vieppiù sottacendo. E l’Europa era in fiamme, il mondo era in fiamme. Quello che maggiormente preoccupava i dirigenti comunisti internazionali – e Togliatti lo era – con l’avvicinarsi della fine della guerra era la stabilità: Jalta è dietro l’angolo, la Conferenza in cui il mondo viene spartito per aree di influenza sarà nel settembre dell’anno dopo. Ma Togliatti ha un mandato con sé: il mar Mediterraneo non può essere proprietà degli imperialismi – e la Sicilia è un luogo strategico. D’altronde nel dicembre del 1943 il potente Vyšinskij è venuto dalla Russia a Palermo per dirglielo chiaramente agli americani. E Vyšinskij non sopporta proprio il separatismo siciliano e ha lasciato intendere agli Alleati che sarebbe bene non giocassero col fuoco.
Togliatti scrive: «Non vi è da stupire se, in questa situazione, la cosiddetta propaganda separatista ha in Sicilia determinati successi. Prima di tutto, essa si collega a tradizioni storiche di lotta per la libertà del popolo siciliano che sono tutt’altro che spente e tutt’altro che da disprezzare. In secondo luogo, essa sfrutta il tema vastissimo dei torti che veramente sono stati fatti alla Sicilia nel sistema dello Stato italiano». La questione siciliana, dice, non la si affronta né con la polizia né con l’ordinaria amministrazione. E dunque, o la si affronta o diventerà «sempre più complicata e difficile con lo sbocco inevitabile del problema siciliano in problema internazionale».
Eccole là, parole pesanti e inequivocabili: «sbocco inevitabile», «problema internazionale». La questione siciliana diventa improvvisamente un tassello del Grande Ordine Mondiale – qualcosa su cui i siciliani, ma gli italiani stessi, hanno un potere di decisione e un ruolo assolutamente secondari, una situazione sovradeterminata in cui si può essere irresponsabili (e i separatisti – fa intendere – con il loro ammiccare eccessivo agli statunitensi, lo sono) o dare prova di senso di responsabilità.
Togliatti ritornerà più volte sulla questione siciliana e sul separatismo, e tornerà più volte in Sicilia. Il 12 maggio del 1946 è a piazza Politeama, Palermo (il discorso si trova in: P. Togliatti, La questione siciliana, a cura di F. Renda, Edizioni Libri siciliani, Palermo, 1965). Dice: «Noi siamo contro la tendenza separatista per due motivi essenziali: uno che riguarda tutta l’Italia e l’altro che riguarda la Sicilia in particolare. Il motivo che riguarda tutta l’Italia è questo: che se anche si poteva ammettere, diciamo, settanta od ottanta anni or sono, una soluzione differente del problema siciliano da quella che venne data nel 1860-61, l’organizzazione della regione siciliana come Stato indipendente, e la sua federazione con altre regioni d’Italia o altri Stati mediterranei organizzati secondo lo stesso principio, non è ammissibile nel momento attuale, al punto in cui è stato ridotto il nostro Paese, a meno che non si voglia arrecare un danno mortale a tutta l’Italia come stato indipendente e unitario. Ma il secondo argomento credo sia anche più efficace. Immaginatevi in questo Mediterraneo, arena di competizioni tra i colossi dell’imperialismo mondiale, questo piccolo Stato di cinque milioni di abitanti! Dove e come pensate che troverebbe la forza di resistere alla pressione di questi colossi? Lo staterello siciliano non avrebbe altra prospettiva che quella di essere lo zimbello della politica coloniale e imperiale di grandi lupi imperialistici».
La soluzione politica di Togliatti sarà sposare la causa dell’autonomia regionale –anche spingendosi fino a sostenere la causa dell’Alta Corte, come dimensione paritaria e di omologazione tra lo Statuto regionale e la Costituzione italiana. Ne avrà una visione “alta” – di autogoverno popolare, della capacità di irrorare di lotte e battaglie il dettato istituzionale – e polemizzerà spesso con chi la considera una dimensione amministrativa e basta, e una visione “politica” – della lotta politica, della rottura del monopolio Dc, e difatti plaudirà alla costituzione dell’Unione Siciliana Cristiano Sociale di Pignatone e Corrao e sosterrà la formazione dei governi Milazzo.
Il pensiero di Togliatti sulla Sicilia è chiaro: da “uomo di Stato” teme lo sfarinamento dello Stato italiano, e quindi la sua insignificanza internazionale: è inimmaginabile un’Italia senza la Sicilia (e senza la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Friuli, si potrebbe aggiungere); da “uomo del comunismo internazionale” il suo sguardo abbraccia lo scenario geopolitico quando la guerra sarà finita.
Ora, parafrasando Togliatti: se settant’anni or sono, si fosse data una soluzione diversa alla questione siciliana di quella del 1945-46 – davvero la Sicilia sarebbe stata preda dei colossi imperialistici, lo zimbello della loro politica coloniale?
E, in verità, non lo siamo proprio diventati, preda e zimbello?
E ancora: lo Stato italiano ha, in questi settant’anni, fatto qualcosa di diverso che proseguire, nei confronti della Sicilia, la stessa depredazione che aveva già operato nei settant’anni precedenti, ovvero quando nel 1860-61 forse poteva darsi soluzione diversa alla questione siciliana?
E infine: l’Ordine mondiale non è più quello della fine della Seconda guerra. La Germania è riunificata, i paesi baltici e quelli dell’Est non sono più sotto il controllo sovietico. La Gran Bretagna, che allora era ancora una potenza imperiale benché ormai in declino, si richiude nei suoi confini. Forse lo scenario è ancora più confuso e disgregato di allora – e il Mediterraneo è già un mare di guerra –, ma di certo non è lo stesso. Che valore può avere ancora oggi, quella “clausola obbligatoria” di subordinazione alla stabilità internazionale che Togliatti agitava, paventando una fibrillazione pericolosissima?