Il sisma del ’68 della Valle del Belìce: un terremoto lungo 53 anni
Sono passati 53 anni dal sisma che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 colpì il territorio della Valle del Belìce, nella Sicilia Occidentale.
Tra le 2:33 e le 3:01 del 15 Gennaio 1968 il territorio della Valle del Belìce fu colpito da una serie di scosse che distrussero interi paesi e devastarono un’area già afflitta da gravi problematiche relative a condizioni di povertà, emigrazione e disagi socio-economici vissuti dalla maggior parte della popolazione. Le cifre ufficiali riportano 231 vittime e 623 feriti, ma altre fonti parlano di oltre 400 morti e più di 1.000 feriti, con oltre 70.000 sfollati.
Un territorio dimenticato dallo Stato
La Valle del Belìce d’un tratto si ritrovò sotto i riflettori dei media del tempo, che fecero scoprire al resto del paese le condizioni di un territorio dimenticato dallo Stato, dove il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta sembrava non essere arrivato, se non nella sua forma peggiore, fatta di emigrazione e rinuncia da parte delle istituzioni di occuparsi delle problematiche della popolazione residente, considerata periferia di uno Stato che aveva al centro dei suoi interessi lo sviluppo industriale ed economico del triangolo Torino-Genova-Milano.
Il terremoto fece scoprire l’esistenza di una parte della Sicilia dove si viveva in condizioni di povertà impressionanti, dove nelle stesse stanze abitavano uomini e animali. Ci si rese conto della gravità della situazione con l’arrivo dei primi soccorsi, giunti con il ritardo di una macchina statale assopita e lenta, impossibilitati a procedere, poiché intere strade – già fatiscenti e non adeguate ai mezzi pesanti – erano scomparse e i collegamenti interrotti. Un pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona dichiarò di avere visto «uno spettacolo da bomba atomica». «Ho volato su un inferno» – aggiunse.
Nei paesi vicini la solidarietà della gente si manifestò subito con raccolte improvvisate di abiti, cibo, coperte; ma i camion e i mezzi inviati con gli aiuti si trovarono impantanati nel fango, impossibilitati a procedere per poter soccorrere chi aveva perso tutto e non aveva neanche di che mangiare e coprirsi. Si aggiunga la mancanza di coordinamento, l’impreparazione logistica e l’iniziale inerzia dello Stato, incapace di far fronte a una tragedia di quelle dimensioni.
Le baraccopoli eterne
Un mese dopo il sisma, nella provincia di Trapani 9.000 senza tetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6.000 in tendopoli, 3.200 in tende sparse e 5.000 in carri ferroviari; mentre 10.000 persone erano emigrate in altre province. Gli abitanti vissero per mesi nelle tendopoli e poi per anni nelle baraccopoli.
Nel 1973 la popolazione nelle baracche era di 48.182 individui e solo il 10% degli alloggi necessari era stato edificato; per di più, questi alloggi non potevano essere assegnati in quanto non erano state ultimate le necessarie opere di urbanizzazione primaria (strade, acquedotti, reti elettriche) ed erano completamente assenti i servizi amministrativi e commerciali.
Nel 1976 erano ancora 47 mila i cittadini nelle baracche e solo 225 abitazioni erano state assegnate. Molte delle infrastrutture, “cattedrali nel deserto” sulle quali si erano concentrati gli interventi, giacevano inutilizzate: un caso emblematico fu l’Asse del Belìce, una grande strada che attraversa la Valle e si ferma in aperta campagna.
Le ultime 250 baracche con i tetti in amianto furono smontate solo nel 2006. Tra ritardi incredibili iniziò la ricostruzione con opere faraoniche spesso inutili, fuori dal rapporto con le caratteristiche del territorio e le esigenze degli abitanti, prime fra tutte l’occupazione e il lavoro, ma anche l’esistenza di luoghi di socializzazione. Non venne ripristinata la rete ferroviaria locale che collegava la maggior parte dei centri dell’area terremotata con la zona costiera, mentre venne finanziata e costruita l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo: non si tenne alcun conto della necessità di ricostruzione della viabilità ordinaria di collegamento tra i centri abitati.
Un territorio ancora oggi umiliato
Complessivamente, per una ricostruzione ad oggi non del tutto completata, sono stati spesi, ai valori attuali, oltre 6 miliardi di euro: altre stime dimezzano questa cifra. I paesi vennero ricostruiti in aree lontane da quelle originarie con infrastrutture urbanistiche spesso spettrali e dispersive, che poco hanno a che fare con le caratteristiche storiche, architettoniche e sociali dei paesi siciliani.
Ancora oggi la ricostruzione non è finita, ma soprattutto non c’è alcuna forma di sviluppo economico. I giovani vanno altrove, il flusso migratorio iniziato dopo il terremoto è in continuo aumento perché la disoccupazione ha raggiunto il 50%. Le case ricostruite sono disabitate, il valore dei fabbricati è bassissimo, e i settori più importanti, come l’agricoltura specializzata e il turismo, non vedono investimenti tali da risultare trainanti per l’economia. I progetti di eventuali insediamenti economici naufragano tra la burocrazia, il clientelismo, il parassitismo e l’incapacità di realizzare occasioni di lavoro che consentano di restare nella propria terra e di vivere dignitosamente.
Il completamento della ricostruzione rimane ancora uno dei capitoli da chiudere, dopo mezzo secolo da quel sisma. Il 2021 non prevede nella Legge di Bilancio approvata somme disponibili per il completamento delle opere pubbliche e le infrastrutture necessarie per gli standard di vita della popolazione ancora residente. A questo si aggiunge la perseveranza delle istituzioni regionali e della classe politica nazionale nell’umiliare ulteriormente questo territorio, smantellando presidi ospedalieri e sanitari come l’Ospedale della Valle del Belìce a Castelvetrano, oggetto di trasferimenti e chiusure di reparti essenziali per la popolazione che, tramite comitati e azioni di protesta civile, si oppone all’ennesima privazione di servizi, ma anche di dignità.
Uno Stato assente o disinteressato che tiene in considerazione l’area solo quando c’è da scegliere il luogo per la realizzazione del Deposito Nazionale dei Rifiuti Radioattivi, mettendo tra i siti considerati idonei allo stoccaggio luoghi come Calatafimi-Segesta, comune belicino a pochi passi dal Parco Archeologico di Segesta, di notevole interesse culturale e naturalistico.
La pericolosa presenza di amianto
Eppure sarebbero altre le problematiche che ormai da decenni il territorio vive e per le quali la gente muore. La mancata bonifica dell’amianto usato per la ricostruzione post sismica è uno di quei problemi – e mancanze istituzionali – che affligge un po’ tutti i comuni belicini che, a distanza di 50 anni dal terremoto, miete ancora oggi vittime silenziose. Una fibra di amianto è 1300 volte più sottile di un capello umano. Non esiste una soglia di rischio al di sotto della quale la concentrazione di fibre di amianto nell’aria non sia pericolosa: un’esposizione prolungata nel tempo o a elevate quantità aumenta significativamente le probabilità di contrarre le patologie associate. Le polveri contenenti fibre d’amianto se respirate possono causare gravi danni: l’asbestosi per importanti esposizioni, tumori della pleura (il mesotelioma pleurico) e il carcinoma polmonare.
Una volta accertata la tossicità e la nocività per la popolazione, l’amianto e i suoi derivati vennero vietati nella produzione, lavorazione e vendita dallo Stato italiano nel 1992. Venne anche previsto un intervento di “bonifica” per le strutture già esistenti al fine di limitare i possibili danni. Situazioni critiche sono osservabili a Santa Margherita Belìce e Montevago.
A Santa Margherita per esempio esiste un luogo, chiamato “la Fossa dei Leoni”, che contiene centinaia di chilogrammi di amianto e suoi derivati. Era stato pensato come deposito provvisorio per raccogliere l’amianto dismesso dalle case distrutte dal sisma, ma è diventato un deposito di fatto permanente, in attesa di una bonifica mai realizzata o avvenuta in parte a causa di finanziamenti bloccati dalla Regione Siciliana.
Finanziamenti prima di competenza statale, poi passati alla Regione. Lo stesso problema, rappresentato da cumuli di migliaia di lastre di Eternit abbandonate, può essere riscontrato tra i ruderi dei quartieri abbandonati dopo il sisma. Gli stessi ruderi che sono diventati nel tempo luogo di pascolo. In totale stato di abbandono dopo il terremoto è anche il vecchio centro ridotto in ruderi circondato da erbacce e vegetazione selvaggia. Tra i ricoveri di bestiame allestiti negli edifici inagibili, nelle campagne belicine sono presenti rifiuti abbandonati in cui può essere riscontrata la presenza del tossico amianto, sotto forma di lastre distrutte e fatte a pezzi. Dopo 50 anni si muore ancora di terremoto.
Valle del Belìce: laboratorio di lotte
Ma il territorio del Belìce è stato anche territorio di mobilitazione popolare, teatro delle lotte di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori per le dighe, il lavoro e la scuola; dell’attivismo di Lorenzo Barbera contro la speculazione sulla ricostruzione e in favore del Servizio Civile al posto di quello militare.
Due anni dopo il terremoto, attraverso la sua “Radio dei Poveri Cristi” Danilo Dolci, da Partinico, denunciava a tutto il mondo la situazione drammatica in cui erano costretti a vivere gli abitanti del Belìce in baracche di metallo poggiate sulla terra nuda. Desta ammirazione l’impegno di questo sociologo che scelse di vivere in Sicilia e che elaborò, insieme ai suoi collaboratori, un piano per la rinascita del Belìce, senza che, chi doveva occuparsene e finanziarlo, ne tenesse alcun conto, perché in quel piano non c’era spazio per le speculazioni mafiose.
Il Belìce divenne un laboratorio del Sessantotto. Le idee urbanistiche e artistiche si inserirono in un processo innovativo di autocoscienza popolare. Come nelle fabbriche, nelle aule e nei campus universitari, si sperimentò la democrazia diretta delle assemblee popolari.
Restano nella memoria le frasi scritte sui muri dei ruder: «La burocrazia uccide più del terremoto»; «Qui la gente è stata uccisa nelle fragili case e da chi le ha impedito di riappropriarsi della vita col lavoro»; «Governanti burocrati: si è assassini anche facendo marcire i progetti».
Inefficiente, lontano, corrotto, ottusamente repressivo, lo Stato fu dichiarato fuorilegge perché non rispettava diritti e impegni e la protesta non-violenta prese le forme dello sciopero fiscale. Le visite delle autorità furono contestate perché passerelle propagandistiche. I giovani del Belìce che dovevano fare il servizio militare conquistarono per la prima volta in Italia il diritto al Servizio Civile.
Il sisma come metafora di rivoluzione
Furono lunghi anni di sofferenza, lotte e disubbidienza civile per uscire dalle tende nel fango, e poi dalle baracche. Il Belìce divenne luogo di scontro politico, simbolo dell’impegno degli intellettuali, punto di riferimento delle avanguardie artistiche e rivoluzionarie, tirocinio per i sessantottini. I comitati locali promossero progetti di ricostruzione dal basso in contrasto con la gestione ministeriale del governo da una parte e i tentativi della mafia di intercettare le risorse dall’altra.
Il sisma, metafora di rivoluzione, fu sentito come il principio di un’opera di ricostruzione morale e sociale, la possibilità di mettere in pratica le teorie della modernità più avanzata in sintonia con quanto andava maturando da anni in quell’area della Sicilia Occidentale. Tra una serie infinita di piani di ricostruzione, turbolente manifestazioni dei comitati a Roma e a Palermo, scioperi fiscali e proteste anti-leva, il Belìce ha provato a cambiare il suo destino e a diventare una valle verde ricca di vigneti e ulivi.
E ci prova ancora oggi, nelle nuove generazioni che il terremoto non l’hanno vissuto sulla propria pelle, ma che sono intenzionate a non dover sottostare al destino di desertificazione e abbandono di un territorio ricco di potenzialità e voglia di riscatto.