L’insostenibile crescita del Mezzogiorno.
In Sicilia sono in arrivo nuove misure di sostegno per l’economia. Queste, in breve, le misure proposte: sviluppo dell’imprenditoria giovanile, espansione della rete di imprese transnazionali e multinazionali, formazione a macchia di leopardo di zone economiche speciali. Politici, amministratori e imbonitori televisivi sono pronti a suonare i tromboni del rilancio economico del Mezzogiorno. Ci racconteranno che le recenti “Disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno” – approvate il 20 giugno (decreto-legge n. 91) e riformulate in agosto – rappresentano la panacea per portare la Sicilia e le altre regioni del Sud fuori della crisi. E siccome di racconti ne abbiamo ascoltati parecchi, noi prima di fare salti di gioia vogliamo vedere le carte, leggere queste “Disposizioni”.
Scendiamo nei dettagli, allora. L’art. 1 del Decreto, dal titolo accattivante “Resto al Sud”, esordisce ammiccando ai giovani meridionali ed esaltando le loro capacità imprenditoriali. Quindi preannuncia, agli imprenditori in pectore che volessero intraprendere una qualche attività, un prestito che può raggiungere i 40 mila euro; di questi, però, solo il 35%, poco più di diecimila euro, verrebbe assegnato a fondo perduto. Insomma, l’imprenditore in pectore per dar vita alla sua nuova impresa, aprire una sede, acquistare materiale d’ufficio e tecnologie, assumere dipendenti, pagare le bollette, dovrà fare assegnamento su qualche migliaio di euro; per il resto delle spese potrà chiedere aiuto ad una banca e sperare di non ritrovarsi tra le mani, a garanzia del prestito, qualche titolo tossico. Così ha disposto, dietro suggerimento europeo, il Governo italiano a cui questa operazione costerà 36 milioni in tutto. Grazie Italia, grazie Europa!
In che consiste, invece, il regalo alle grandi imprese straniere, alle multinazionali come la svizzera Nexxus, o la francese Veolia, o l’italiana ENI? A loro va il grosso del pacchetto (artt. 4 e 5 del Decreto): sgravi fiscali, prossimità alle materie prime, semplificazione burocratica, mano d’opera a costi stracciati, libertà di intervento sui territori. Queste imprese faranno la parte del leone. A loro andrà un finanziamento statale che, per ciascun progetto, potrà arrivare a 50 milioni di euro – ben più corposo, come si vede, dell’obolo elargito all’imprenditore in pectore.
Alle imprese agricole verranno distribuite risorse pari a 15 milioni di euro; un osso, e neanche molto carnoso, da spartirsi tra 8 regioni del Centro-Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia): a occhio e croce poco più di 2 milioni in media a ciascuna regione. Se si pensa che ancora 5 anni fa, nel mezzo della crisi economica, i fondi FAS assegnati alla agricoltura siciliana furono di 1 miliardo e 161 milioni, si capisce facilmente che le tanto decantate incentivazioni rappresentano una piccolissime goccia nel mare del fabbisogno finanziario dell’agricoltura siciliana. Questi fondi, tra l’altro, finiranno nelle casse delle imprese agrarie più forti, quelle organizzate nei distretti e nei consorzi, come recita il comma 3 dell’art. 2: “Le attività di cui ai commi precedenti possono essere svolte dai consorzi agrari anche mediante la partecipazione a società di capitali”.
A margine del decreto, per così dire nascosto tra i suoi allegati, c’è un provvedimento che modifica le norme per la classificazione dei rifiuti pericolosi; un provvedimento grazie al quale un’impresa che si occupa di rifiuti non è più tenuta a dichiarare la natura dei rifiuti che trasporta, né ad applicare i codici CER (Codici per rifiuti speciali e pericolosi) ormai caduti in disuso. Per dirla più chiara, d’ora in poi scaricare rifiuti speciali e tossici nei nostri territori sarà più agevole, con buona pace per il popolo siciliano. Il Decreto n. 152 del 2006, che imponeva di indicare attraverso i codici la natura delle sostanze da conferire in discarica e di indicare l’origine, adesso potrà essere trasgredito impunemente.
L’altra perla del Decreto è rappresentata dall’istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES). Si tratta di aree, ancora da individuare, che esercitano una forte attrattiva per i cercatori di profitto – che so? o perché sono ricche di idrocarburi o altre fonti energetiche, o perché si prestano alla conservazione dei rifiuti (laghi prosciugati, miniere abbandonate, ecc), o perché traboccano di forza-lavoro a bassissimo costo, o perché i loro porti possono convertirsi in giganteschi terminal-container. Si prevede di istituire una decina di ZES nelle regioni meridionali; di queste qualcuna nascerà anche in Sicilia. L’imprenditore che opererà all’interno di una ZES potrà godere di vantaggi fiscali, facilitazioni burocratiche, coperture politiche e sindacali. Fin qui sarebbe difficile obiettare, se non fosse che nei fatti le ZES altro non sono che una concentrazione dei flussi finanziari in poche aree. Infatti, secondo quanto stabilisce l’art. 5 del Decreto, gli oneri derivanti dalla costituzione delle ZES graveranno sul FSC (Fondo Europeo per lo Sviluppo e la Coesione), il quale a sua volta scaturiva dal FAS (Fondo per le Aree Sottoutilizzate). Dunque: le risorse messe a disposizione per la costituzione delle ZES fanno già parte delle voci di spesa destinate al Mezzogiorno. Allora, concentrare le risorse finanziarie su poche aree vorrà dire condannare tutte le altre all’abbandono e al decadimento.
Ecco, le carte della crescita le abbiamo viste… e belle non sono di certo. Tocca alle Regioni, chiamate a svolgere un ruolo esecutivo in tutta la vicenda, di trovare le aree da convertire in ZES, rilasciare i nullaosta senza tante storie, regalare il proprio territorio a imprenditori senza scrupoli, recuperare il lavoro precario e flessibile, sottoporsi ai diktat del neocolonialismo finanziario. La sola opposizione immaginabile può nascere dal territorio e dalle comunità locali; soltanto queste, intensificando la resistenza ai piani del capitale finanziario, saranno in grado di contrapporsi all’ulteriore degrado dell’ambiente, della salute fisica e mentale, del lavoro.