La Sicilia di un nostro amico.
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Parte prima
Il mercato delle merci e il mercato finanziario.
La notte tarda a venire e il nostro amico ha bisogno di oscurità. Una domanda lo impensierisce. Che rapporto c’è tra chi produce merce e chi riproduce denaro? La stretta dipendenza delle attività finanziarie da quelle manifatturiere e commerciali, riflette il nostro amico, l’aspirazione al profitto che accomuna entrambe, non implica che coincidano le loro strategie economiche, sociali e culturali. Il capitalista industriale opera nel mercato delle merci (produce secondo la nota formula merce-denaro-merce, m-d-m), mentre il capitalista finanziario specula nel mercato dei titoli di credito (seguendo la nota formula denaro-denaro, d-d). Esistono perciò, premette il nostro amico, due modi per estrarre profitto: ricavandolo dalla produzione di merce oppure dallo scambio di valori monetari. Il primo si appropria di plus-valore, il secondo di plus-valenza. Nel primo caso, per ottenere un profitto il capitalista acquista lavoro a costi più bassi del prodotto. Nel secondo caso, è dalla compravendita dei titoli di credito che si genera il profitto. Nel primo caso c’è l’evidenza di un conflitto sociale, che nel secondo rimane nascosto.
Insomma, confessa il nostro amico: quando un capitalista industriale decideva di impiantare o allargare la sua impresa, doveva acquistare i macchinari necessari, assumere una massa di operai, trovare una banca disposta ad aiutarlo. Quel capitalista vecchio stampo si occupava di ricerca e relazioni sindacali, curava le coperture politiche, escogitava strategie per abbattere la concorrenza e progettava un futuro di sviluppo industriale, in un delirio evoluzionistico che lo vedeva in guerra permanente con la Natura e con gli uomini.
Il nuovo capitalista finanziario, al contrario, vive in un paradiso di ovatta. Non prende in considerazione le leggi o i sindacati, non si occupa di macchinari, non ricerca coperture perché è lui la coperta, non è interessato ai progetti a lunga scadenza ma al profitto mordi e fuggi. Il nuovo capitalista finanziario osserva su uno schermo l’andamento dei propri affari, affida ai logaritmi i propri interessi. Dall’alto di un trono costruito sul credito, egli partecipa alla crescita smoderata di un mercato dove si acquistano e si vendono titoli, obbligazioni, fondi, “futures”, quote azionarie. Non è la concorrenza che teme, il capitalista finanziario, ma l’andamento dei tassi d’interesse, le fluttuazioni di borsa, i rating, le statistiche.
A dispetto della diversità tra i due capitalisti, i mercati delle merci e della finanza rimangono tra loro interconnessi. In primis, il mercato finanziario proviene da quello delle merci; senza il secondo non ci sarebbe il primo. Lo sfruttamento del lavoro e la sete di profitto hanno dato la stura a una massa gigantesca di capitale finanziario.
I due capitalisti erano andati a braccetto per molto tempo. Tuttavia, nel corso di questo ultimo cinquantennio qualcosa è cambiata. Dagli anni ’70 in avanti, infatti, il capitale finanziario ha preso a crescere con maggior velocità di quello industriale, giungendo oggi a superarlo in valore di ben 200 volte, in un processo di accrescimento che pare inarrestabile. Per la raggiunta capacità di comando, è il capitalista finanziario che adesso decide e regola le sorti della produzione di merce. Per costui l’acquisto del pacchetto azionario di vecchie fabbriche, magari per dismetterle subito dopo e far spazio a nuove produzioni, è semplicissimo: gli basta premere un tasto per mettersi al comando di un consiglio d’amministrazione. Il capitalista industriale è in difficoltà; non si fa vedere in giro, sembra svanito nel nulla; in molti casi corona col suicidio il proprio tramonto; altre volte alza la voce, reagisce, ma per azzittirsi subito dopo, fulminato dalla vendetta del più potente compare.
Adesso il nostro amico passa a esaminare il signor Toti, un disoccupato di Temini Imerese, già operaio Fiat. Quarantadue anni, un paio di figli, una moglie verosimilmente delusa, un vecchio genitore da tenere in vita, bollette da pagare, cibo, scuola, medicine. Toti era in procinto di suicidarsi quando, dono del cielo, fu assunto al nuovo call center; precario, senza contratto, ma assunto. Da cui il nostro amico deduce: il licenziamento dell’operaio Fiat era avvenuto al momento della metamorfosi strategica dell’azienda, caduta preda del capitale finanziario. Era stato assunto in FIAT perché il vecchio Agnelli pensava di appropriarsi della sua forza-lavoro, fu poi licenziato perché il nuovo padrone aveva rivolto lo sguardo alla finanza internazionale. Come si diceva, l’operaio Toti rimasto a spasso, poi che si trovò a un passo dal suicidio, ricevette la bella notizia dal call center. Si preparò a tornare sotto lo stivale di un padrone, nuovo, invisibile, senza scrupoli; e ci tornò sotto lo stivale, come fosse lui l’isola di Sicilia! Non avrebbe fatto un bel guadagno il signor Toti, che pure alla fine tutti consideravano fortunato. Alla fine, a conti fatti, la paga dell’operaio di Termini Imerese si era dimezzata, sindacati non se ne vedevano più, compagni di lavoro meno che mai, il lavoro era avvilente, il ricatto di licenziamento continuo, i tempi accelerati, la famiglia a pezzi.
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Un bel salto nel passato, a questo punto. Per difendersi dalla crisi di sovrapproduzione dei primi anni ’70 del ‘900, consistenti quote di capitale industriale si riversarono sul mercato finanziario, provocando danni considerevoli nella cosiddetta economia reale. Un buon numero di industriali accorrevano sulle principali piazze finanziarie per mettere in salvo i profitti, li imboscavano nei paradisi fiscali, si trasformavano in giocatori di borsa; in molti fermavano la produzione, rispedivano a casa gli operai, vendevano tutto e si occultavano nel mercato dei titoli. Negli anni in cui la loro merce rimaneva invenduta, accatastata nei piazzali delle fabbriche, quando la rabbia operaia esplodeva con forza e mentre i sindacati si piegavano supini alla “efficienza” alla “crescita” alla “tecnologia” alla “premialità”, quegli industriali cambiavano rotta.
Le ripetute crisi del petrolio, il crollo, tuttora in corso, di interi comparti produttivi, la crescita disordinata e frettolosa della comunicazione e dell’informatica, hanno generato guasti sociali profondi. Da un lato, una gigantesca massa di disoccupati (difficilmente definibili perfino come “esercito di riserva”), dall’altro un esercito (questo sì) di lavoratori precarizzati, parcellizzati e schiavizzati, un terziario proletarizzato di dimensioni ciclopiche. Mai dal dopoguerra il lavoro in Sicilia ha raggiunto condizioni così sconfortanti, valori così bassi.
La crisi di sovrapproduzione ha avuto inizio nel mondo occidentale nei primi anni ’70 e si è prolungata in forme sempre più devastanti, trasformando e indebolendo il mercato delle merci mentre lievitava quello finanziario. Per un industriale come mister Agnelli divenne più vantaggioso affrontare la crisi utilizzando le proprie società finanziarie, come la CNH Global o la Exor; quest’ultima, dopo essersi rimpinguata con i prestiti concessi a chi voleva acquistare un’auto FIAT, prese a speculare sui mercati finanziari per passare infine le consegne alla FCA-Italy della Fiat Chrysler Automobiles, di cui ha potuto acquistare il 20% del pacchetto azionario.
Nella collisione tra mercato delle merci e mercato finanziario l’industria esce sfigurata, rivolta esclusivamente alla creazione di flussi di cassa, da riversare nei mercati finanziari in tempi relativamente ristretti; un’industria disattenta a quei piani di lungo respiro, a quei programmi pluriennali, che avevano contrassegnato il passato “fordista”. Per raggiungere i nuovi obiettivi a breve termine, il capitalista industriale un po’ interviene sul consumo (con promozioni, incremento della pubblicità e simili), un po’ contiene salari e stipendi, un po’ modifica gli assetti societari; senza mai perdere di vista, però, l’andamento della borsa o il rendimento dei titoli o la poltrona di qualche consiglio di amministrazione.
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Al fine di spiegare meglio che cosa è e da dove discende il capitale finanziario, il nostro amico ricorda alcuni snodi storici: i primi finanzieri furono gli esattori papali; alla fine del Medioevo essi gestivano le offerte dei fedeli, il denaro raccolto per le indulgenze e i trasferimenti finanziari dal Vaticano alle diocesi straniere. Dopo avere accumulato ricchezze enormi per circa due secoli, i Medici nei secoli XV e XVI hanno potuto tenere in pugno il Vaticano, coi prestiti concessi per coprire le sue enormi spese. Al tempo stesso, la famiglia fiorentina controllava le economie di molti paesi europei, avendone finanziato le guerre. I primi, veri, specialisti della finanza furono i genovesi della Casa di San Giorgio. Con loro la finanza si fece mercato. Essi organizzarono la finanza su base pubblica: escogitarono i fondi di ammortamento per rimborsare il debito pubblico, il ricorso ai titoli per finanziarlo; inaugurarono la contabilità di Stato ed elaborarono norme a tutela del capitale finanziario. I banchieri genovesi convogliarono nelle casse pubbliche il risparmio privato. Il fondamento delle loro fortune va cercato, però, nel loro collegamento col colonialismo spagnolo, dunque, nell’oro del Sudamerica.
Agli inizi dell’età moderna, il capitale finanziario era gestito secondo il sistema del “gold standard”, che limitava la capacità monetaria di un paese alla quantità di oro posseduta. Questo sistema assicurava alle principali piazze dell’Europa coloniale, inglesi spagnoli e olandesi prima di tutti, la centralità negli scambi finanziari. L’afflusso d’oro dalle colonie consentiva a quei paesi di aumentare le emissioni monetarie, con vantaggio per tutte le attività industriali; fu il gettito d’oro la fonte materiale della prima rivoluzione industriale, in Inghilterra prima che altrove. Tuttavia, sul finire del XIX secolo il sistema del “gold standard” cominciò a scricchiolare, sotto i colpi della recessione, della perduta centralità dei manufatti inglesi e a seguito dei processi di concentrazione bancaria imposti dalla Bank of England. Molte banche fallirono e non soltanto a Londra.
Alle banche tradizionali si sostituirono le nuove “banche di deposito”, caratterizzate dal disimpegno dalla struttura produttiva. Compito prevalente di queste banche fu il finanziamento del commercio mondiale e il trasferimento di capitali in aree geografiche ad alta redditività. L’esposizione delle banche inglesi, francesi e tedesche verso paesi stranieri, fu la causa economica della Prima Guerra Mondiale. Alla fine della guerra, il “gold standard” venne convertito in una versione meno rigida, detta “gold exchange standard”, per cui si poteva ricorrere a nuovi coni a condizione che si rimanesse agganciati a una moneta rispettosa del “gold standard” prima maniera.
La crisi del 1929 provocò profondi cambiamenti economici (lo sviluppo della meccanica, la catena di montaggio, la produzione di massa) e sociali (la disoccupazione degli anni ’30, gli scioperi di fabbrica). La crisi si sarebbe conclusa di fatto con gli accordi di Bretton Wood e la definitiva sconfitta del sistema aureo. Gli accordi di Bretton Wood (1944) costituiscono un sistema di regole volte a condizionare le politiche finanziarie al livello mondiale e ad impedire quel protezionismo che era stato la causa economica scatenante della Seconda Guerra Mondiale. Con gli accordi di Bretton Wood il dollaro fu promosso a moneta di scambio per i pagamenti internazionali. A guardiani di questi accordi vennero chiamati la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, all’uopo costituiti.
Il nostro amico riprende fiato, poi continua: alla fine degli anni ’50 e per tutti i ’60 i processi di integrazione consentirono l’accumulazione di enormi profitti. Crebbe parallelamente la massa liquida investita in operazioni finanziarie; un decennio di boom economico, durante il quale il mercato finanziario si sviluppò con tassi di crescita particolarmente elevati. Crebbero i movimenti speculativi a breve termine, che lucravano sulle oscillazioni dei cambi o sui rendimenti del denaro. Molti capitali lasciarono l’Italia per mete più remunerative (Svizzera, Germania, Giappone, USA); una “fuga di capitali” che i governi hanno finto di voler fermare ma in realtà si son guardati bene dal farlo.
Negli USA il rimpatrio dei profitti accumulati dalle multinazionali (in primo luogo dalle compagnie petrolifere) raggiungeva un valore doppio rispetto alla fuoriuscita di capitali per investimenti esteri; durante le presidenze Ford e Carter, si ebbe un enorme afflusso di capitali europei. Agli inizi degli anni ’70 il dollaro venne deliberatamente svalutato, per far fronte all’aumento della base monetaria. Come diretta conseguenza, il prezzo del petrolio aumentò fino a triplicare, a compensazione della perdita di potere d’acquisto della moneta americana. Con la contrazione conseguente dei consumi prese il via la prima grande crisi del secondo dopoguerra, contrassegnata da un aumento generalizzato dei prezzi e dall’incremento dei processi di concentrazione industriale, sostenuta dallo sviluppo tecnologico. L’alto prezzo del petrolio fece aumentare la liquidità delle banche, conseguenza diretta dell’enorme massa di denaro proveniente dai paesi produttori di petrolio. In quegli anni, le economie nazionali in crisi vedevano aumentare le giacenze liquide presso le banche ma non erano più in grado di disporne come in passato, per via del crollo dei consumi.
Gli anni ’80 sono conosciuti come gli anni della svolta monetarista, una misura con cui si intendeva contenere l’inflazione. Ciò che invece ne derivò fu un balzo dei tassi a livelli elevatissimi e l’ulteriore restrizione del credito. Nel tentativo di fermare la salita dei tassi di interesse si aumentò la quantità di moneta circolante; a ciò provvidero le Banche centrali che controllando l’emissione di moneta controllavano i tassi. Il nostro amico precisa: nel mercato finanziario succede che se le Banche centrali acquistano titoli aumenta la quantità di moneta circolante, se li vendono quella quantità diminuisce; un giochetto usato di recente dalla Deutsche Bundesbank contro la Grecia e la stessa Italia.
La stretta monetarista favorì le piazze statunitensi, che tornarono ad attrarre flussi di capitale; il business finanziario si svolgeva prevalentemente nel mercato di Wall Street. L’alta valorizzazione del capitale finanziario spinse molti ad abbandonare le attività produttive e trasformarsi in “rentiers”. Paradossalmente, ciò appesantì la posizione debitoria degli USA, che incrementarono la vendita di titoli, “funds”, sui quali però dovevano pagare gli interessi. Un circolo vizioso e senza via d’uscita. Il peggioramento dei conti pubblici negli USA ebbe pesanti conseguenze per tutti i paesi con elevate quote di debito, primi tra tutti i paesi meno sviluppati.
Le politiche bancarie mutarono radicalmente negli anni ’80. Le operazioni di finanziamento venivano coperte da titoli negoziabili sul mercato finanziario: operazione detta di “cartolarizzazione”, precisò il nostro amico. Per sconfiggere i rischi, le banche misero a rischio il risparmio – quello delle massaie e dei pensionati, per intenderci. Liberandosi dei rischi di recupero del credito le banche si difendevano dalle crisi debitorie. I paesi più industrializzati che dovevano ricorrere al credito specie nella fase di ristrutturazione tecnologica, si videro costretti a ricorrere alle nuove forme di finanziamento.
Allo stesso modo del capitale industriale, anche il capitale finanziario è soggetto a crisi, giura il nostro amico. Dagli anni ’80 ad oggi ne sono state registrate almeno tre, insiste. L’ultima, quella del 2007 negli USA, distrusse le ricchezze di milioni di risparmiatori e le sue ripercussioni sono ancora in corso. Al tempo stesso, come effetto collaterale della distruzione del risparmio, gli investimenti esteri degli USA sono crollati di oltre il 50%, determinando un’impressionante riduzione dei flussi finanziari in tutto il mondo, in special modo nei paesi in via di sviluppo, privati del carburante per i motori, pur sgangherati, della loro economia. La marea di disperati in fuga verso il Nord del mondo è il risultato più perverso delle crisi finanziarie globali.
Il nostro amico, a questo punto, cita Roberto Panizza: «anziché muovere dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, a partire dal 1997 i flussi finanziari fuoriescono da questi ultimi per convergere verso gli stati più ricchi. Tale inversione di tendenza, manifestatasi inizialmente in sordina con un rientro di qualche miliardo di dollari, si è poi intensificata, raggiungendo l’elevatissima cifra di quasi 200 miliardi di dollari all’anno. Tutto ciò spiega come mai non si possa contare per nulla su una ripresa di quei paesi, a causa soprattutto dei continui drenaggi di risorse finanziarie, ai quali sono stati sottoposti soprattutto a partire dal 1999» (R. Panizza, Movimenti internazionali di capitali, p. 95).
Il nostro amico si guarda in giro, stanco, e conclude: a illustrazione di tutta questa storia, è stato calcolato che una massa di circa 2000 miliardi di dollari al giorno si muove nel comparto della speculazione finanziaria, alla ricerca di interessi più alti, contratti “future” e simili. Si tratta di operazioni che non generano ricchezza sociale, né valore aggiunto, ma enormi agglomerati di denaro per pochi individui e il deserto per tutti gli altri. Il nostro amico qui si commuove e rinvia alla seconda parte.
Parte seconda
Capitale finanziario e Stato.
Il nostro amico sa di essere siciliano. In Sicilia c’è nato, c’ha vissuto, c’è arrivato dal mare, c’è capitato per caso; comunque sia, è siciliano. Eppure da qualche tempo si sente sradicato, senza stato; è come se avesse acquisito altre cittadinanze, un po’ italiano, un po’ europeo, un po’ cittadino del mondo. Ciò che succede se lo spiega con tre ragioni: 1) I flussi finanziari non seguono le volontà degli Stati nazionali ma le occasioni di profitto offerte dai territori. 2) La massa enorme di capitale finanziario ha deformato gli Stati nazionali. 3) Gli Stati hanno ceduto quote di sovranità, allentando i controlli sull’economia e sulla produzione, abbandonando il proprio spazio territoriale ai capricci del mercato finanziario.
Incapaci di controllare lo sviluppo economico e produttivo, gli Stati non sono più nella condizione di garantire gli equilibri sociali (di classe) né di sanare le contraddizioni che si aprono al loro interno. Deprivati di autonomia decisionale, i parlamenti e i governi nazionali, nel loro complesso, si sono trasformati in strumenti nelle mani del capitale finanziario. Il nostro amico ha un sussulto. Lo Stato rimane in vita prevalentemente come Stato di polizia, addetto alla repressione sociale e culturale. I massicci investimenti nella sicurezza, lo spiegamento di forza muscolare ad ogni corteo proletario, il controllo capillare del territorio, sono segni del superamento della forma-stato e della formazione di un nuovo modello globale di gestione “a rete”, come direbbe Castells, del controllo internazionale: il trans-stato del nuovo millennio. Il nostro amico alza gli occhi alle stelle e le vede muoversi; che saranno? si chiede.
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Qual è l’origine della forma-stato “nazionale”? I conflitti derivanti dalla separazione tra diritti privati e formazioni di classe hanno dato vita nel tempo a organizzazioni statuali chiamate a gestirlo. In generale, lo Stato gestisce l’antagonismo di classe per conto della classe dominante. Per questo, se il servo e il padrone contendono, il padrone può vincere la contesa solo se interviene il giudizio sovrano dello Stato.
Lo Stato moderno prese forma al tempo delle prime rivoluzioni industriali; il suo compito primario era di mantenere in funzione le fabbriche. Grazie agli Stati nazionali il capitalismo industriale è riuscito a sopravvivere agli attacchi dei proletari; grazie ai suoi tribunali, alle sue scuole, alle sue prigioni, alle sue chiese. Lo Stato moderno sottrae potere non solo alle classi lavoratrici, ma alle comunità locali; le assorbe, le domina, le condiziona, le rappresenta. Per sua natura, si oppone a ogni tentazione di indipendenza, ad ogni tentativo di eludere il suo controllo. Nel 1860 gli abitatori della Sicilia si videro sottrarre ancora una volta il terreno sotto i piedi dallo Stato moderno; quand’erano ormai stanchi del dominio borbonico hanno dovuto sottostare a quello savoiardo. La “modernità italica” decretava la generalizzata sottomissione degli abitatori della Sicilia. Oggi, però, essi si sentono sottomessi da una nuova entità, che non ha l’aspetto del vecchio barone né del vecchio padrone. Il nuovo signore non ha territorialità e tuttavia fa sentire la sua presenza oppressiva, ha stabilito il suo potere sull’isola e tuttavia sembra invisibile. È un signore che non opera nei confini del vecchio Stato e, tuttavia, spadroneggia sui territori.
Gli apparati ideologici sono mobilitati per mantenere o incrementare la fiducia in questa sorta di trans-stato, nei suoi eserciti, nelle sue polizie, nelle sue corti di giustizia, nelle sue accademie, nei suoi partiti politici. Apparati che presentano lo Stato come una istituzione al di sopra delle parti, un regolatore imparziale dei conflitti. E poiché lo Stato appare al di sopra delle parti, sopra le parti appare anche la sua legge e la sua violenza.
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Come concepisce il nostro amico il rapporto tra rivoluzione e Stato? Si affretta a rispondere, menzionando alcuni padri fondatori. Distingue due categorie, due modi di pensare quel rapporto: da un lato, chi crede che lo Stato vada conquistato, dall’altro chi crede che vada abbattuto. Per Lassalle, un importante portavoce della teoria della “conquista dello Stato”, i rivoluzionari devono impadronirsi delle strutture statali; Lassalle è tra i promotori del suffragio universale. Secondo il suo modo di vedere, la classe operaia deve riuscire ad affermare la propria forza nel corso della lotta parlamentare. Anche per Gramsci lo Stato deve essere conquistato e ri-usato, nella speranza di spegnere le contraddizioni di classe, colmare le distanze tra Nord industriale e Sud agricolo, appropriarsi della macchina produttiva; la conquista gramsciana dello Stato implica l’adozione della civiltà industriale.
Il nostro amico fa l’occhiolino e passa al secondo gruppo, più radicale. È la volta di Marx, che definisce lo Stato una sovrastruttura, una costruzione del capitalismo. In quanto tale esso è destinato a seguirne le sorti – scomparendo sotto i colpi della rivoluzione; per Marx non c’è trasformazione senza estinzione dello Stato. Anche per Bakunin lo Stato è destinato a scomparire; per lui la prospettiva rivoluzionaria non può che essere una prospettiva comunitaria. Per Bakunin la rivoluzione è un atto sociale, non politico; ciò comporta che lo Stato, struttura politica per eccellenza, si estinguerà con la rivoluzione, che farà nascere organismi e istituti popolari.
Lo Stato non è un “edificio eterno”; è soltanto una creatura del capitalismo, una costruzione istituzionale a tempo determinato, taglia corto il nostro amico.
Parte terza
Il territorio nell’era della globalizzazione.
Quale trasformazione subiscono i territori nel nuovo panorama? Facciamo il caso della Sicilia, territorio depresso, nelle lande del trans-stato, attaccato economicamente e culturalmente. Passati da tempo gli anni dell’industrializzazione e dei finanziamenti pubblici, dei piani di investimento e delle Casse regionali, degli enti di sviluppo e delle agenzie d’investimento, la Sicilia si trova su un binario morto dei transiti finanziari; qualche vagone vi sosta, di tanto in tanto, ma per tornare presto nel grande circuito dei flussi. Nelle gerarchie territoriali del trans-stato, stabilite in funzione delle opportunità di estrazione di profitto, la Sicilia è destinata a quote minime di finanziamento, che per di più vengono utilizzate contro i territori (trivelle, inceneritori, apparecchiature militari). In Sicilia i flussi si distribuiscono su diversi canali: da quello della grande distribuzione a quello estrattivo, da quello dei servizi (rifiuti, acqua, infrastrutture) a quello turistico e fino a quello militare. Le scuole, gli ospedali, l’assistenza, le case popolari, la campagna, la viabilità, la qualità di vita, restano fuori, abbandonati all’incuria e alla decadenza.
Il trans-stato provoca inevitabilmente l’emarginazione di interi territori, (città degradate, quartieri devastati, borghi abbandonati, campagne sterili) con conseguenze disastrose per il lavoro e l’ambiente. Nella fase attuale, come dice il nostro amico, la centralità raggiunta dai mercati finanziari rispetto ai mercati delle merci rende sempre più devastanti i riflessi del capitale sul piano geo-sociale; quei riflessi si manifestano all’atto stesso della concentrazione delle funzioni di coordinamento, controllo e gestione sociale dei flussi di capitale all’interno dei territori, siano essi centri urbani o periferie sperdute.
La globalizzazione finanziaria ha portato in primo piano la problematica dei territori, intesi nel senso più profondo di spazi gerarchizzati che riproducono geograficamente il rapporto tra dominatori e dominati. Alterando gli assetti territoriali, il capitalismo finanziario ha riformulato i parametri della geografia coloniale, li ha imposti nei ghetti della metropoli e, in generale, negli spazi dell’abbandono. L”’habitat” del nostro amico poggia su un rapporto di dominio.
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Volendo definire il territorio, il nostro amico afferma che può tornare utile la distinzione tra paesaggio e ambiente. Così: il paesaggio è lo spazio fisico nel quale si svolge la vita dell’uomo; è lo spazio del processo produttivo, con le sue fabbriche e i suoi quartieri operai, delle attività formative e culturali, delle pratiche religiose e politiche, dei centri direzionali e delle banlieue. Ogni singola costruzione del paesaggio rivela la condizione sociale da cui ha preso vita. L’ambiente, invece, è un sistema di relazioni che lega una comunità di persone; nell’ambiente si esprimono i rapporti di classe e genere, le stratificazioni gerarchiche e professionali, le conoscenze e i linguaggi, le tradizioni e le innovazioni. L’ambiente, insomma, sta oltre la geografia e va indagato con la lente della sociologia.
Laddove il paesaggio appare come fisicità immobilizzata, l’ambiente si manifesta nelle trame relazionali vigenti storicamente e, pertanto, suscettibili di drastiche mutazioni. Alla inequivocabile conformazione del paesaggio capitalistico, corrisponde l’estrema mutevolezza dei suoi diversi ambienti: forme diverse di un medesimo contenuto. Il paesaggio è un insieme di spazi nei quali prende posto un insieme di individui, ordinati per classi, generi, professioni e via discorrendo. Il paesaggio è un composto di “luoghi”, l’ambiente un composto di “processi”. Il paesaggio disegnato dalla finanza globalizzata si distingue in paesaggio urbano extraurbano e suburbano, campagna, metropoli informatizzata e periferia “scollegata”. A tale paesaggio corrisponde un ambiente, una relazione gerarchica di strategie territoriali, che si deve intendere, con Castells, come “rete” di dipendenze.
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Il paesaggio rappresenta un’entità reale, costituita da un aggregato di manufatti, che mutano al mutare degli equilibri sociali. Il paesaggio contemporaneo, che giustamente Harvey considera modellato sul capitale, è “costruito in appoggio alla produzione, alla distribuzione e allo scambio”, e prende le forme imposte dalla finanziarizzazione dell’economia. Il paesaggio siciliano non va confuso col mare o col vulcano; il vero paesaggio, quello fisico-sociale, è cosparso di ciminiere, perforato dalle scavatrici, carbonizzato dagli incendi, avvelenato dalle discariche, dal Muos, dai MacDonald. Tale è il paesaggio nel quale ci ha collocati la finanza internazionale.
Per concludere: se il nostro paesaggio appare come disposizione di manufatti devastanti, il nostro ambiente esprime una condizione di subordinazione, una relazione coloniale di dipendenza. Sebbene distinti paesaggio e ambiente interagiscono al punto che l’uno è funzione dell’altro: il primo traduce la dialettica sociale del secondo.
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Ciò a cui diamo nome di “territorio” è la complessa formazione geo-sociale nella quale viviamo. Il territorio viene definito in diversi modi; il nostro amico ne ricorda alcuni. Inizia dalla definizione corrente, la più accreditata: “una estensione di paese compresa entro i confini di uno Stato o che costituisce un’unità giurisdizionale, amministrativa”. Così definito, il territorio è presentato come il terreno fisico e sociale su cui si imprime una determinata forma di imperio: un regno, uno stato-nazione, una repubblica, un aggregato di stati. La definizione corrente collega una porzione di spazio alla forma istituzionale a cui è sottoposto; dunque, non una porzione di terra indeterminata ma uno spazio soggetto a vincoli giuridici.
Il nostro amico ricorda anche la definizione bio-antropologica di territorio. Adesso il territorio è definito spazio vivo dell’antropos, terreno costitutivo dei caratteri culturali e delle pratiche collettive. Spazio di identità territorializzate e incontaminate, esclusività. Nella definizione edulcorata della psicologia, invece, territorio è rappresentato come spazio esperienziale, che sovrintende alla formazione dei segni distintivi del soggetto; luogo di confluenza delle diversità, del dissimile.
Nessuna di queste definizioni può soddisfare il nostro amico, dal momento che tutte considerano il territorio soltanto in funzione della giurisdizione, del carattere del soggetto o della collettività, cioè del solo paesaggio o del solo ambiente. Nessuna riesce a specificare appieno il tessuto storico, fisico e relazionale del territorio. Solo così possono essere riconosciuti gli effetti materiali che il capitale produce sul territorio; in secondo luogo, bisognerebbe individuare le condizioni oggettive e soggettive che determinano le sue mutazioni; infine, comprendere l’interazione con la formazione di classe.
È a partire da una definizione di territorio come spazio geograficamente e socialmente marcato, nel quale si intrecciano le attività pratiche della comunità che lo abita e sul quale agiscono le forze della produzione e della riproduzione capitalistica, che si può intenderlo come organismo sociale vivente, in quanto storicamente mutevole. Organismo nel quale, e col quale, gli individui portano avanti la propria esistenza, le proprie idee, i propri affetti, il proprio lavoro. Un organismo in cui appaiono le tracce dei poteri reali, del dominio capitalistico. L’esigenza di sottrarre i territori alle forme di dominio è una necessità primaria del vivere comunitario; per questo è sempre più necessario coniugare il territorio col suo valore d’uso, riscattarlo dal suo valore di scambio.
Il territorio non è una categoria stabile, ma va riletto nelle forme che si sono succedute nel tempo fino a sedimentarsi in quella attuale. Esso è il risultato finale di una sequenza di mutazioni morfologiche e sociali, fino a quelle più recenti impresse dal capitale finanziario internazionale. Spazio storico e sociale di una comunità preda del capitale, del suo Stato e delle sue istituzioni. Ma prima ancora, spazio in incessante mutamento, esposto ai conflitti e alle rivoluzioni.
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Il capitalista finanziario non si impossessa soltanto dell’apparato produttivo mondiale; lui vuole comandare sui territori di tutto il mondo, per tutto l’arco di vita dei consumatori. Il suo capitale necessita del territorio per sopravvivere, per implementare la propria riproduzione. In questo processo, gli Stati nazionali, intrappolati nella nuova geografia della sviluppo finanziario, perdono potere in favore di forme di governance centralizzate al livello sovranazionale. I territori minori (regioni, distretti, comuni, ecc.) si riposizionano strategicamente nell’ambito dei flussi economici, essendo chiamati a un confronto diretto, non mediato dagli Stati, con la nuova configurazione del capitale.
La realtà, argomenta il nostro amico, è attraversata dalla dialettica e dall’antagonismo tra le forze esogene della globalizzazione e quelle endogene dei territori, in un conflitto che gli Stati non sono più in grado di impedire e a cui possono rispondere soltanto con la repressione. La lotta di classe nella fase postfordista si gioca dentro e attraverso il conflitto tra il territorio del capitale, territorio in sé, e quello della comunità, territorio per sé. La resistenza al capitale, perciò, o è territoriale o è condannata al fallimento; è la resistenza esercitata da chi abita il territorio e si batte per salvarlo della devastazione, dall’avvelenamento, dal controllo poliziesco e militare e, in generale, dagli effetti deleteri della finanziarizzazione dell’economia mondiale. Abitare è, come scrive Lefebvre in Il diritto alla città, “salvare la terra, usarla, conservarla”. Allo stesso modo in cui il proletario si oppone allo sfruttamento, le comunità territoriali non possono che lottare contro le strategie escogitate a loro danno dal capitale internazionale e dalle sue diramazioni territoriali.
4. Concludendo
Il nostro amico tira i fili. L’indipendenza non è un’opzione. È necessaria alla lotta di classe, affinché trovi nuova linfa nella lotta delle comunità territoriali. Il percorso per l’indipendenza o è un percorso di liberazione sociale o non è. Va ripetendolo in giro il nostro amico: si lotta per l’Indipendenza dal capitale, dalla sua attuale configurazione, dal suo dominio sul territorio siciliano, su tutti i territori. Non può esserci, come il nostro amico ha appreso da Marx, nuova umanità se non ci si batte, ovunque in vista di “un regno del per sé”; e l’Indipendenza apre la strada al regno del per sé, delle classi popolari per sé, dei territori per sé, delle donne, dei GLBT e degli immigrati per sé, dei bimbi e degli anziani per sé.
Durante un’incursione su un vocabolario virtuale, il nostro amico scopre che “dipendenza” proviene dal latino “pèndere”, “trovarsi in balia”, “trovarsi nella posizione di chi sta per cader giù”. Il nostro amico non ha mai studiato le grammatiche, le morfologie, mai consultato un glossario. Tuttavia non gli è difficile capire che essere caduti in balia del capitalismo globalizzato costituisce per il territorio siciliano e per tutti coloro che lo abitano una vera sciagura, un dannosa dipendenza; lo testimoniano le nuove forme di lavoro, l’aumento vertiginoso della miseria, l’avvelenamento sempre più drammatico della terra, delle acque e dell’aria, la forte emigrazione – solo alcuni dei risultati del postfordismo in Sicilia. Dopo l’incursione, il nostro amico spegne tutte le luci, che è già l’alba.
L’orizzonte rivoluzionario oggi non può che aprirsi all’Indipendenza dei territori, forma attuale della secessione dal profitto. L’indipendenza è l’estrema difesa del territorio da parte dei suoi abitanti, il rilancio dei suoi valori d’uso, l’interruzione dei circuiti di riproduzione economica e culturale del capitale internazionale.
In un impeto di esaltazione, il nostro amico ricorre a Lefebvre. Si dichiara seguace della “critica sociale abitativa”, quella dottrina che rivendica il diritto universale allo “spazio vitale”, e avanza così la sua rivendicazione popolare: cacciamo il capitale internazionale e i suoi lacchè dalla Sicilia per fare dell’isola lo spazio vitale dei suoi abitanti.
Sempre più esaltato, il nostro amico lascia Lefebvre e si richiama ad Harvey. Sostiene, così, che la lotta indirizzata alla liberazione del territorio abbatte gli spazi dell’asservimento: le lotte per la casa e l’abitare, le spinte all’autogoverno, l’opposizione ai sistemi educativi, la ricomposizione delle battaglie sindacali, le lotte popolari in difesa del territorio, sono terreni fertili sui cui far maturare la nuova Indipendenza. Un nuovo movimento per l’Indipendenza comincia da qui.