L’autonomismo è un cane morto.
di lanfranco caminiti
Viviamo da quarant’anni in un mondo rovesciato – esattamente da quando la “questione meridionale”, che fu dall’unità d’Italia l’asse portante, la Grundnorm, la norma fondamentale della costituzione materiale da Bolzano a Ragusa, si rovesciò nella “questione settentrionale”.
In questo “sottosopra” in cui viviamo, il Nord è diventato vittima e perseguitato, e il Sud è diventato carnefice e persecutore, con la complicità del Centro (lo Stato). La natura asimmetrica dello Stato italiano, nel suo passaggio alla modernizzazione capitalista che aveva bisogno di un territorio “nazionale” dove reperire risorse e dove rovesciare merci per reggere il confronto europeo e dei mercati – asimmetrica per come esso stesso s’era costituito, attraverso una guerra civile e la vittoria militare dello Stato sabaudo su quello dei Borbone, che diede inizio alla “piemontesizzazione” della forma-Stato – è rimasta, ma ha preso di segno opposto, nel “sentimento politico” e nell’ideologia nazionale.
Quando i processi di “omologazione nazionale” che erano stati spinti per un verso dalle necessità degli ulteriori passaggi dell’industrialismo (massicce concentrazioni di fabbriche, massiccia produzione di merci, massiccia diffusione di servizi) e per un altro dalla spinta sociale a strappare condizioni migliori (su tutte, la lotta contro le “gabbie salariali”, per cui un edile al sud era pagato la metà di un edile al nord, o un bracciante agricolo di una provincia meridionale era pagato meno di un bracciante agricolo della provincia vicina) – insomma, il “combinato disposto” di fordismo e welfare che ha dominato gli anni del miracolo economico fino ai Settanta – è andato in crisi (la crisi del fabbrichismo e delle risorse petrolifere prima e la crisi finanziaria dopo), le cose sono profondamente cambiate. L’«assistenzialismo» al Sud, che era finalizzato a mantenere consenso verso la politica nazionale e a distribuire ricchezza perché venisse spesa in merci e servizi, era diventato diabolico – il nemico pubblico numero uno. La torta (a cui tutti contribuivamo, chi con gli ingredienti, chi impastando, chi infornando) era più piccola e i più prepotenti non avevano più alcuna intenzione di distribuirne briciole agli altri, e volevano papparsela tutta da soli. Da quarant’anni, la “questione settentrionale” influenza, determina, domina la politica e l’economia nazionali.
L’autonomia differenziata – nella versione leghista del ministro Stefani o nella versione piddina del ministro Boccia – è questa cosa qua: la “questione settentrionale” che si fa istituzione, che si fa Stato. Non è perciò, come nella “versione” precedente della prima Lega di Bossi, il secessionismo padano, poi stemperato nelle macro-regioni del federalismo di Miglio, ma un processo di “conquista” (di golpe istituzionale) dello Stato e del ri-disegno dei suoi assetti costitutivi. I suoi “soggetti promotori” – istituzionali, politici, economici – sono le regioni del Nord, guidate da Zaia, Fontana e Bonaccini, regioni profondamente leghiste, a cui poco importa il governo al governo. Che il gatto sia bianco o nero, purché faccia legge l’autonomia differenziata.
C’è un interessante raffronto che può essere fatto – pur con cautela – con la Spagna. Dopo la Costituzione del 1978, quella che avrebbe dovuto sancire il dopo-franchismo, lo Stato spagnolo è costituto da 17 suddivisioni territoriali, chiamate Comunità autonome (comunidades autónomas), ognuna delle quali ha un proprio Parlamento e un proprio Governo locale. Due articoli regolano la costituzione delle comunidades: l’articolo 151, riservato alle comunità che già precedentemente al regime franchista avevano avviato un processo di autonomia (quelle storiche: Catalogna, Paese Basco e Galizia) a cui se ne aggiungono altre (l’Andalusia, le Canarie, Navarra e la Comunida Valenciana), che consentiva alle comunidades di accedere a un livello ulteriore di competenze altrimenti riservate allo Stato; e l’articolo 143, il quale prevede un accesso graduale all’autonomia e attribuiva alle comunidades neo-costituite soltanto delle competenze ordinarie, che sarebbero state implementate col tempo. Si è parlato, per definire questa situazione, di “corsa tra tartarughe e lepri”, ovvero della dinamica secondo cui le comunità di livello ordinario cercano di raggiungere le comunità storiche le quali, a loro volta, attraverso accordi bilaterali con il centro, cercano di implementare le loro competenze. Poi, è arrivato il referendum della Catalogna, che ha scombinato tutto, e il resto è storia nota.
Il paragone prudente con l’Italia può farsi nella “corsa tra tartarughe e lepri”. Dove, le lepri erano all’inizio le regioni a ordinamento speciale (la Sicilia, la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino) e le tartarughe erano tutte le altre. Solo che l’autonomismo siciliano ha perso da tempo la spinta propulsiva che erano i movimenti sociali dell’immediato dopoguerra, e s’è trasformata in una tartaruga. E oggi, le tartarughe d’un tempo (le regioni del Nord) sono le lepri del progetto della autonomia differenziata. Il paradosso di Zenone è confermato. Se lo Stato spagnolo si schiera con determinazione feroce contro la Catalogna e il suo processo di indipendenza, lo fa richiamando l’articolo 2 della Costituzione, che recita: «La costituzione si fonda sull’unità indissolubile della Nazione spagnola, patria comune ed indivisibile di tutti gli spagnoli, riconosce e garantisce il diritto dell’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono, nonché la solidarietà fra tutte queste». Autonomismo sì, ma state al vostro posto – dentro la nazione spagnola una e indivisibile. Vale appena la pena ricordare l’articolo 1 del tanto “decantato” Statuto speciale siciliano: «La Sicilia, con le isole Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, è costituita in Regione autonoma, fornita di personalità giuridica, entro l’unità politica dello Stato Italiano, sulla base dei principi democratici che ispirano la vita della Nazione». Non ci sarebbe vita, oltre l’unità politica dello Stato italiano.
Con il processo di autonomia differenziata le lepri delle regioni nordiste faranno la loro corsa solitaria – avranno le loro scuole e i loro insegnanti, avranno la loro sanità e i loro medici e via così. Con il processo di autonomia differenziata la tartaruga siciliana si spiaggia e va verso l’estinzione. Rivendicarla, oggi, è una cosa contro natura.
La questione siciliana – ovvero al tempo della catastrofe del capitalismo che s’è fatta vita quotidiana (disastri ambientali e di infrastrutture, emigrazione massiccia di risorse, saperi e competenze, trivellazione e drenaggio di ogni bene, naturale e culturale) come immaginare forme di produzione e distribuzione di ricchezza, come immaginare forme di istituzione sociale che lascino la decisione politica ai territori e ai suoi abitanti – non ha più possibile forma nella rivendicazione dell’autonomismo, che poi significa credere nell’unità della patria e della nazione italiana, cioè nel nazionalismo italiano. Che oggi è la questione settentrionale che si fa Stato tutt’intera.
C’è solo una “forma politica” possibile per la Sicilia: l’indipendenza.
E questa è “una cosa della natura”.