Le rivolte contro capitale e forma Stato
Le rivolte scoppiate negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd si stanno diffondendo in tutto il mondo.
A Parigi, in migliaia hanno manifestato davanti al tribunale sfidando le forze dell’ordine. In Brasile, le rivolte contro la polizia si sono trasformate in un’opposizione contro il governo Bolsonaro. Ad Atene, centinaia di manifestanti hanno attaccato l’ambasciata USA a suon di molotov. In Messico, i manifestanti hanno dato fuoco ad alcune auto della polizia e hanno tentato di entrare nel palazzo del governo.
Già da prima erano ripartire le proteste a Honk Kong per la democrazia e l’indipendenza dalla Cina. Anche in Cile, da ottobre, è in corso una rivolta popolare contro la violenza e l’oppressione dello Stato cileno.
Per una nuova territorialità
Si tratta ovunque di riappropriazione di spazi, beni, diritti, dignità, decisione. In breve, dell’affermarsi inesorabile di un’altra territorialità contro quella imposta e disciplinata dagli Stati. Una nuova territorialità per sopravvivere al declino capitalista e allo Stato che ne interpreta i bisogni con le sue leggi e i suoi organi repressivi.
Le rivolte non sono che una risposta alla crisi globale di sistema. Crisi politica, economica e – drammaticamente – etica. Le domande che dalle rivolte emergono con forza dirompente sono: è possibile costruire una società libera dal paradigma della statualità e della centralizzazione dei poteri? È possibile costruire indipendenza, autodeterminazione, autogoverno delle comunità territoriali, costruire un sistema di relazioni sociali libero dal dominio capitalista e dalle sue forme storiche di amministrazione?
Nella risposta affermativa si costituisce l’azione rivoluzionaria dei popoli.
Scontro di classe per l’autogoverno
Oggi più che mai bisogna immaginare, praticare, costruire le istituzioni popolari che ci liberano dallo Stato e dai “modelli di sviluppo” praticati dal sistema economico basato sul profitto.
L’emergenza covid-19 ha fatto emergere, rendendole ancora più evidenti, le innumerevoli contraddizioni e ingiustizie che tengono in piedi la società dentro cui viviamo. Hanno mostrato quali percorsi i governanti intendono intraprendere con la cosiddetta “ripartenza”: produzione di povertà, disoccupazione e precarietà, sfinimento dei territori nella produzione di energia da esportazione, controllo militare e poliziesco nel segno dell’emergenza (sanitaria, politica, economica).
È questo il mix letale che ha generato l’esplosione di rabbia negli Stati Uniti d’America e a seguire in Canada, Nuova Zelanda, Brasile e Francia. Nonostante quello che raccontano i benpensanti nostrani, non è soltanto distruzione e saccheggio, ma critica-pratica alle forme del governo della crisi. È scontro di classe. E al centro dello scontro, come oggetto del contendere, c’è ancora una volta il territorio. Lo scontro è tra chi ci abita e chi – con l’imposizione – lo controlla, detta le regole, decide chi vive e chi muore. Chi è ricco e chi è povero.
Negli Stati Uniti d’America si è passati all’attacco (era ora). Ma non dimentichiamo che una scintilla può incendiare la prateria.