Le stragi dei Fasci siciliani.
«Un manifesto era stato attaccato ai muri, ma il popolino lo ignorava; e, ignorandolo, al solito, come altrove, coi ritratti del re e della regina, un crocefisso in capo alla processione, gridando – Viva il re! Abbasso le tasse! – s’era messo a percorrere le vie del paese, finché, uscendo dalla piazza e imboccando una strada angusta che la fronteggiava, vi aveva trovato otto soldati e quattro carabinieri appostati. L’ufficiale che li comandava aveva preso questo partito con strategia sopraffina, perché la folla inerme, lì calcata e pigiata, alle intimazioni di sbandarsi non si potesse più muovere; e lì non una ma più volte, aveva ordinato contro di essa il fuoco. Undici morti, innumerevoli feriti, tra cui donne, vecchi, bambini. Ora, tutto era calmo, come in un cimitero». [I vecchi e i giovani] La narrazione di Pirandello, cruda come un reportage, ripercorre la strage di Santa Caterina Villermosa del 5 gennaio 1894. Il 3 gennaio, a Palermo, il generale Morra di Lavriano in virtù dei poteri conferitigli da Crispi aveva decretato lo stato d’assedio, sciolto per legge i Fasci dei lavoratori e disposto l’arresto dei membri del Comitato centrale. Era passato esattamente un anno dall’intensificarsi del ciclo di manifestazioni, scioperi e proteste iniziato il 3 gennaio del 1893 a Catenanova. In quell’anno ci furono centoventi manifestazioni in Sicilia di cui abbiamo una qualche registrazione: occupazioni di terre, scioperi dei braccianti agricoli per l’aumento dei salari, scioperi dei minatori contro i gabelloti, scioperi dei mietitori, proteste contro le tasse, richieste dei patti colonici e per l’abolizione del cottimo, incendi dei casotti daziari, devastazioni di municipi. Anche festeggiamenti, per l’ottenimento dei nuovi patti colonici, per qualche aumento di salario, per l’allontanamento di un delegato di polizia o di qualche amministratore. Ci furono anche, quasi subito – nell’agosto stesso, a Comiso, Vittoria, Trapani, Balestrate, Terranova, Trappeto, Barcellona, Scordia, Porto Empedocle, Cefalù, Favara, Mazzara del Vallo, Palermo, Santa Ninfa, Aidone, Sutera, Melilli, Calatafimi, San Piero Patti, Sant’Angelo di Brolo – dimostrazioni di protesta dopo i fatti di Aigues Mortes, in Francia, quando i nostri connazionali che lavoravano nelle saline vennero linciati perché accusati di sottrarre lavoro ai francesi. Non c’era internet e la rete al tempo, ma i movimenti sociali si muovevano egualmente veloci. E ci furono anche a Licodia Eubea, a Naso, a Caccamo, a Militello, a Siracusa, manifestazioni al grido di “abbasso Giolitti, viva Crispi”. Questo, certo, prima che Crispi desse pieni poteri al generale Morra. A quel punto restò ai contadini solo l’intercessione delle immagini del re e della regina, come santi da portare in corteo, insieme alla Vergine e al Cristo – Hobsbawm nel suo I ribelli diede molto peso a questo aspetto religioso e millenaristico, ma i Fasci non erano i giurisdavidici di Lazzaretti riuniti in “comunità evangelica” sul monte Amiata – sperando che li proteggessero. Perché le stragi erano iniziate da subito: il 20 gennaio del 1893 a Caltavuturo, 13 morti. Poi, erano proseguite, punteggiando le proteste: il 6 marzo, a Serradifalco, 2 morti; il 6 agosto, ad Alcamo 1 morto. Fino allo sconquasso degli ultimi mesi: il 10 dicembre, a Giardinello, 11 morti; il 25 dicembre, a Lercara, 11 morti; l’1 gennaio del 1894, a Pietraperzia, 8 morti; il 2 gennaio, a Belmonte Mezzagno, 2 morti; il 3 gennaio, a Marineo, 18 morti; e il 5 gennaio, a Santa Caterina Villermosa, 14 morti, di cui racconta Pirandello. Poi, appunto, la calma di un cimitero. Tra Giolitti e Crispi, per i contadini e i solfatari si manifestò una continuità di eventi, dato che la prima strage, a Caltavuturo, era accaduta con il vecchio liberale piemontese riformista e trasformista – che dietro le proteste si raccomandò a evitarne altre –, e l’ultima, a Santa Caterina Villermosa, accadde con il vecchio garibaldino rivoluzionario ora uomo di ferro. Non bastarono neppure la Vergine e il Cristo a proteggerli, i contadini.
Il primo Fascio venne inaugurato a Messina nel 1888 da Nicolò Petrina, un giovane che si era molto distinto fondando la Croce rossa e portando soccorso alla popolazione durante il colera del 1884, e godeva di estrema popolarità. Petrina riunificò in un’unica sigla e un’unica organizzazione una radicata presenza di società e leghe di mutuo soccorso e resistenza operaia e artigianale. La denominazione “Fascio” non era nuova: era stata già usata, nel decennio precedente, da associazioni operaie romagnole, per rinvigorire simbolicamente il carattere di “società di resistenza” delle loro associazioni. L’esperienza di Petrina a Messina venne bruscamente interrotta dall’arresto e dal carcere e il fascio locale non resse a quest’assenza. Fu con De Felice Giuffrida a Catania, nel 1891, che i Fasci ebbero un impulso straordinario, diffondendosi dalla città alla campagna delle province. E la loro peculiarità. E la consacrazione nell’isola avvenne con l’occasione dell’Esposizione universale a Palermo del 1892. Gli guastarono la festa: in mille arrivarono da Catania, sfilando in corteo – “passeggiate”, le chiamavano i Fasci – per la città. Nacque il Fascio di Palermo, sotto la direzione di Bernardino Verro, un impiegato comunale espulso per le sue idee, e poi fu uno sviluppo rapido e impetuoso. Al processo del 1894 si favoleggiò di trecento Fasci capaci di mobilitare 350mila uomini, ma De Felice fu più modesto e precisò che si trattava “solo” di 175 Fasci in tutta la regione. Per Pirandello: «centosessantatré fermamente costituiti, trentacinque in via di formazione» [I vecchi e i giovani]. Avvenne pure che l’esperienza dei Fasci superò lo stretto di Messina, e a essi si ispirarono analoghe organizzazioni in Calabria, a Napoli e nell’Emilia, mentre eguali moti scoppiavano in Puglia e nella Lunigiana. Comunque, i dati più attendibili parlano di 119 Fasci nell’agosto del 1893, saliti a 163 nel novembre, per cui è credibile la valutazione di De Felice [e di Pirandello] che si riferiva soltanto a quelle strutture esplicitamente riconosciute dal gruppo dirigente. I Fasci, come le manifestazioni di protesta, si riproducevano spontaneamente. In ogni caso, per avere un’idea di quale fosse la “forza” dei Fasci, a Casteltermini, su 14mila abitanti, i soci sono quattromila; a Piana dei Greci, su 9mila abitanti, i soci sono 2mila e cinquecento a cui vanno sommate mille donne; a Corleone, su 17mila abitanti, si contano seimila soci fra uomini e donne; a Santa Caterina Xirbi, ci sono iscritti 400 contadini; a Villarmosa duemila minatori; a Castrogiovanni, duemila; a Sommatino, sono mille e ottocento, di cui duecento donne. Sono numeri impressionanti per la diffusione e la capillarità – ancorché reali, dato che bisognava pagare con regolarità ogni mese la propria quota di dieci soldi per avere e mantenere la tessera di socio. Per essere un “fratello”. Per capirli ancora meglio, bisogna raffrontarli con tutta la manodopera della campagna: nel 1903 si calcolò in 476mila il numero dei giornalieri e 250mila per tutte altre categorie, tra cui 75mila «contadini, possidenti in parte e in parte fittavoli, mezzadri e giornalieri». Se 700mila era tutta la forza-lavoro della terra [e probabilmente, nel 1903, a dieci anni dai Fasci, già diminuita per processi di urbanizzazione e emigrazione] e 350mila quelli mobilitati dai Fasci [anche a prendere con le molle un dato non registrato], significa che la metà era in lotta. Quando il 31 luglio 1893 iniziò a Corleone la lotta per modificare e chiedere nuovi Patti colonici, nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta tra agosto, settembre e ottobre la mobilitazione mosse 50mila unità. E successi elettorali si colsero dove vennero presentate liste amministrative, a Messina, Catania, Caltanissetta, Alcamo, Piana degli Albanesi. Dovevano fare proprio paura, con le loro coccarde, le loro sciarpe rosse, i loro stendardi, le loro bande musicali, le loro passeggiate, le loro Sante Vergini, tutti questi “fascianti”. Paura e entusiasmo, a seconda, certo. A secondo del luogo in cui si colloca lo sguardo. Una cosa nuova che la chiamavano sciopero. Una materia fantastica. Un’epopea.