Lo Statuto di Musumeci e il nostro

Lo Statuto di Musumeci e il nostro

Ci avevano già provato col referendum del 2016 a cancellare le prerogative “speciali” assegnate alla Sicilia per diritto costituzionale. Tutti ricordiamo che Renzi voleva, insieme alle altre cose, rivedere e ritoccare il Titolo V della Costituzione, che regola l’attività degli enti territoriali (Regioni, Comuni e Provincie); era sua intenzione, tra l’altro, azzerare le differenze tra le regioni, unificando gli iter legislativi e burocratici e favorendo così il cammino di infiltrazione delle imprese nel territorio. Gli italiani, però, a Renzi hanno risposto NO e, in particolare, i siciliani e i sardi hanno bocciato quella proposta con oltre il 73%, in pratica tre su quattro elettori.
Renzi mirava a centralizzare i poteri e indebolire l’attività delle istituzioni più prossime ai territori – quegli aggregati politici, amministrativi e giuridici che qualche volta avevano fatto inceppare, qualche volta avevano bloccato, qualche altra volta avevano ritardato la marcia del capitale sul territorio. Renzi agiva da cinghia di trasmissione del programma di penetrazione, stazionamento e deflusso del capitale nei e dai, territori. Un programma di ampio respiro, a cui sono particolarmente interessati lobbies della finanza internazionale, multinazionali, porzioni significative di capitale nazionale e locale. Un trust di industrie, società finanziarie, imprese grandi e piccole, banche, che sui territori trovano le principali occasioni di profitto.
I contenuti della proposta referendaria, in particolare la trasformazione del Titolo V, non sono usciti dal cervello di Renzi ma dall’ingegno del capitale nell’epoca storica ed economica che stiamo attraversando; pertanto, se fallisce Renzi qualcun altro dovrà ritentare. Il governo gialloverde “Salvini-Di Maio” dovrà tornare alla carica, trionfare dove Renzi ha fallito. A questo proposito, Salvini ha più volte dichiarato di avere in mente una Federazione Europea delle Regioni; il primo passo da compiere, come ha dimostrato a Pontida, è rappresentato dall’azzeramento delle “specialità” regionali; è questo il primo boccone! Il modello “Salvini” esclude ogni peculiarità statutaria, facendosi forte del ritornello per cui tali peculiarità sarebbero “superate dai tempi” – come dire “non è più tempo di appoggiare le regioni più povere e più sfruttate; d’ora in avanti chi è sfruttato, chi è colonizzato, chi è oppresso, dovrà tenersi lo sfruttamento la colonizzazione e l’oppressione”. Anche per loro, sembra ripetere Salvini, la pacchia è finita.
Dietro una schematica e sommaria omogeneizzazione tra le regioni, si cela un ipocrita senso di giustizia; ipocrita perché, come sappiamo, le regioni italiane omogenee non sono, né sotto il profilo economico, né sotto quello politico, né sotto quello sociale – e ciò non certo per colpa degli Statuti speciali. Le distanze tra territori sono il risultato di un modello di sviluppo ineguale che ha caratterizzato un’intera epoca storica; l’ampliamento di queste distanze è alimentata dalla crisi diffusa, che il capitale prova a fronteggiare intensificando lo sfruttamento coloniale dei territori. Occorre prepararsi a individuare e rintuzzare questi piani, battersi contro i loro interpreti, nella certezza che saranno i territori in rivolta a far fare a Salvini la fine di Renzi.
In molti oggi gridano che la Sicilia è in pericolo; è un grido d’allarme fondato e proviene da quella parte di società civile che non intende donare altro sangue ai vampiri del capitalismo finanziario; quella parte di società colpita duramente dall’aggressività economica e militare che in Sicilia è particolarmente aspra; quella parte di comunità cosciente che lotta in difesa del territorio, che pretende di decidere in materia di rifiuti, inquinamento ambientale, basi militari; quella parte che non si rassegna alla emigrazione dei propri figli, delle mogli o dei mariti.
I duri colpi d’accetta allo Statuto sono un brutto segnale per la Sicilia. Si approfitta di ogni occasione per demolire il poco rimasto dello Statuto. Si cancellano di fatto i suoi articoli più fastidiosi, si disattivano le politiche regionali e comunali, spesso con denunce di dissesto o con complici coperture dell’antimafia. Qualche volta le istituzioni locali hanno provato a contrastare l’impianto di un inceneritore o di una trivella, lo smantellamento della rete stradale o ferroviaria, l’impianto di antenne ad alto inquinamento magnetico. Qualche volta i TAR, qualche volta la CGA (quella Corte di Giustizia Amministrativa che Micchichè vorrebbe riformare), hanno pronunciato sentenze contro l’impianto di fabbriche di morte, come il MUOS o gli inceneritori. Ecco, ci dicono: ogni impedimento allo sviluppo dell’impresa deve cadere, ogni organismo amministrativo, politico o giudiziario deve obbedire, Statuto o non Statuto. Insomma, l’impresa deve poter accedere comodamente nel territorio siciliano, comodamente ne deve uscire, impunemente ne deve sfruttare il lavoro, minacciare la salute, appropriarsi delle sue energie e delle sue intelligenze.
Lo Statuto ha subito numerosi attacchi; fin dalla sua approvazione lo si è vincolato agli “interessi superiori” dello Stato italiano. Molti suoi articoli sono stati cancellati o ignorati, per meglio appropriarsi di risorse tributarie, energetiche, fiscali, umane. Negli anni alcune istituzioni sono sparite, come l’Alta Corte, altre sono state rese inutili o inefficaci. Il colpo d’accetta che nei giorni scorsi è stato sferrato dalla Corte Costituzionale è, se possibile, tra i più dolorosi; esso è inteso ad ammutolire i territori, negando il diritto al voto per i consorzi comunali e riducendo le già scarse possibilità di controllo democratico. È un colpo d’accetta violento, che priva i territori di capacità decisionale e li abbandona tra le grinfie dei peggiori rapaci.
Come è congegnato questo ultimo colpo d’accetta dato dalla Corte Costituzionale? Occorre fare un salto indietro nel tempo quando, era il 24 marzo del 2014, l’ARS approvava una legge istitutiva dei consorzi comunali (le ex-provincie regionali) e delle città metropolitane. La legge era intesa a “razionalizzare l’erogazione dei servizi ai cittadini”, sovrintendendo a lavori come la difesa dell’ambiente, la costruzione e la manutenzione di strade edifici ospedali; la legge prometteva anche lo snellimento dell’azione amministrativa e la riduzione dei costi di produzione. Tuttavia, il 7 aprile dello stesso 2014, a meno di un mese dall’approvazione di quella legge regionale, il Parlamento italiano varava la legge “Delrio” che, guarda caso, trattava la stessa materia della legge varata dal parlamento siciliano, seppure con diverso spirito. La “Delrio”, infatti, legifera sulle provincie, sulle unioni e le fusioni di comuni e sulle città metropolitane: in particolare, detta disposizioni sulla scuola, l’edilizia, la gestione dei rifiuti, la difesa del suolo, le risorse idriche, il turismo eccetera eccetera; materie delicate, oltreché direttamente connesse alla gestione e all’uso del territorio. Tuttavia, alla fine di tante belle promesse, l’art. 58 della “Delrio” dispone che i consorzi comunali non saranno più eletti dai cittadini, ma “nominati” dalla compagine politica di sindaci e consigli. Ed è proprio qui che la “Delrio” entra in conflitto con la legge regionale del 24 marzo. Come volevasi dimostrare!
A quel punto la parola passò alla Corte Costituzionale la quale, chiamata a dirimere la controversia, nei giorni scorsi dichiarò incostituzionale la legge regionale siciliana del 24 marzo; in questo modo, la Corte decretò l’abrogazione dell’art. 35 dello Statuto, che chiama l’Assemblea regionale a deliberare in materia di consorzi comunali. Poteva farlo la Corte Costituzionale, poteva ignorare una legge costituzionale come il nostro Statuto speciale? Certo che poteva; le è bastato richiamarsi all’art.1 dello Statuto speciale, per il quale una legge regionale non può divergere da una nazionale.
La sentenza della Corte Costituzionale ha messo in subbuglio una nutrita fetta del mondo politico nostrano, non certo per i nobili motivi di difesa dei territori o della democrazia, ma per interessi di bottega, per le ben note ragioni clientelari e di distribuzione del potere. Il Presidente della Regione Musumeci ha dato il via al coro di protesta, chiamando i siciliani a battersi in difesa dello Statuto; uno Statuto che, ricordiamolo sempre, è stato eroso da ogni parte. E poi, presidente Musumeci, come dovremmo difenderlo questo Statuto, appellandoci al giudizio dell’Europa, come lei va chiedendo in giro? Invocando l’aiuto di quella stessa Europa che ha perseguitato Puigdemont – presidente regolarmente eletto della Catalogna – con mandati di arresto sollecitati da Rajoy, ex premier di una Spagna che guarda con terrore ai tentativi di recessione e di separazione che periodicamente si manifestano? Crede, signor presidente, che quei personaggi si possano ravvedere, che si possano schierare adesso in favore delle autonomie regionali?
E ancora, presidente Musumeci, perché dovremmo batterci per uno Statuto in vigenza del quale si è potuto depredare l’isola delle sue energie migliori, materiali e umane? A cosa è servito lo Statuto? Di quale Autonomia ha fin qui goduto il popolo siciliano, di quale autonomia godono quanti sono costretti ad emigrare, o a respirare veleni, o a vivere nella miseria e nella precarietà? A dispetto di ciò, per far contento Musumeci, noi dovremmo batterci in difesa di uno Statuto che non è stato in grado di proteggerci, né di tenere lontani i predoni d’ogni risma? Dovremmo batterci per uno Statuto che è servito e tuttora serve a sopprimere la nostra voglia di indipendenza?
I punti di riferimento devono essere diversi, presidente Musumeci. Noi possiamo batterci, certo, ma solo per raggiungere l’indipendenza territoriale, come ci insegnano i curdi, i palestinesi, i catalani, i corsi e tutti quei popoli che quotidianamente combattono l’arroganza del capitale, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la barbarie militare. La Sicilia altro non è che la terra dove ci troviamo a vivere, la terra che dobbiamo proteggere per sopravvivere, che dobbiamo amare e difendere. Per noi l’Indipendenza è il diritto sacrosanto di un popolo, di una comunità, di ogni singolo individuo. Noi non siamo indipendentisti perché vogliamo nutrirci di cannoli e di pasta con le sarde, né lo siamo perché crediamo nelle magiche spinte di una legge statutaria. Se siamo indipendentisti è perché crediamo nella necessità storica dell’autodeterminazione, nella sua attualità e nella sua possibilità; siamo indipendentisti perché sappiamo che soltanto nell’indipendenza i territori possono rinascere e liberarsi dagli istinti predatori del capitale, la morsa che più li affligge.

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