Migrazioni e menzogne di Stato.
Il gioco è audace: ti mostro un particolare e ti induco a credere che si tratti di una totalità, un episodio e ti restituisco un’intera storia. In retorica questo stratagemma prende il nome di sineddoche ed ha lo scopo di indicare un oggetto, o un fatto, o una situazione determinata, attraverso un singolo dettaglio. Possiamo dire “vela” al posto di “barca veliero”, “tetto” al posto di “casa”, “un punto a testa” al posto di “un punto per ciascuna persona”. Fin qui nessun sotterfugio. Il fatto è che nel linguaggio dei nostri uomini di Stato viene fatto un utilizzo smoderato di questa figura retorica col deliberato intento, però, di nascondere la verità, manipolarla, camuffarla. I nostri uomini di Stato fabbricano quantità spropositate di sineddochi, non perché siano degli oratori provetti, ma in quanto maestri nell’arte dell’inganno e della frode; bravi ad occultare la realtà selezionando quegli aspetti che meglio rispondono ai loro fini – campioni di sineddochi pervertite, dunque.
Il caso attualmente sotto gli occhi di tutti è il racconto politico della migrazione, che viene presentata attraverso un suo particolare momento – la traversata nel mar Mediterraneo e il successivo approdo. Un tratto isolato di un disegno compiuto, a cui si assegna il significato generale. Intendiamoci: non ci troviamo di fronte ad un processo di semplificazione, ma ad una vera e propria falsificazione con cui modificare la realtà dei fatti a proprio vantaggio.
I nostri uomini di Stato promettono di occuparsi del “bene altrui”. Pertanto, quando parlano di immigrazione giurano che il loro fine è il “bene del povero immigrato”. Le loro televisioni non ci risparmiano immagini di immigrati che arrivano in Europa per salvarsi da guerre e carestie, di bimbi di colore tra le braccia di qualche solerte crocerossina bianca, di ragazzi seminudi che saltano fiduciosi da un gommone sgonfio ad una confortevole nave di soccorso, di donne incinte che sbarcano nei nostri porti finalmente risollevate. Sta in questa strategia rappresentativa l’inganno!
È questa, infatti, la sineddoche pervertita: una riduzione che non punta ad una parziale versione della verità, ma direttamente al suo rovesciamento. Il racconto dei nostri uomini di Stato gronda di ipocrisia; ancor più perché viene ancorato allo spirito religioso, all’umanitarismo, al solidarismo, perché ci dirotta su una descrizione inattendibile, ci mette fuori pista. Perfino Salvini, nel bel mezzo della sua spietata guerra al profugo, spergiura di voler salvare la vita dei migranti fermando le rovinose traversate del Mediterraneo. E lo fa senza sparagno di parole gesuitiche: «Il Mediterraneo è un cimitero. C’è un unico modo per salvare queste vite: meno gente che parta, più rimpatri. La vita è sacra e per salvarla bisogna evitare che salgano sulle carrette del mare». Una siffatta versione, limitandosi a presentare il “profugo che rischia la vita”, pone Salvini su una posizione difficilmente attaccabile – chi può dire che la vita non è sacra, che non deve essere salvata? Pervertendo la sineddoche il gesuita non corre pericolo!
Per parte loro, gli uomini di Stato della moribonda “sinistra” non si distaccano dal cliché sineddochico. Gentiloni, infatti, predica: «Abbiamo bisogno di migranti nel nostro paese, a condizione che il flusso sia sicuro, organizzato e non porti a morti nel Mediterraneo». Anche in questo caso, ridurre il fenomeno ad una traversata che si vorrebbe più sicura, svia dalla vera natura del fenomeno e, conseguentemente, suggerisce una rappresentazione fuorviante. Per la totalità dei nostri uomini di Stato il frammento, catastrofiche traversate seguite da approdi liberatori, cancella la complessità del fenomeno migratorio e ostacola, così, la formazione di un quadro autentico, di un giudizio fondato; la loro rappresentazione frammentaria non comporta una riduzione quantitativa, ma una ingannevole rielaborazione.
A questo punto, contrariamente a quanto vanno raccontando i nostri uomini di Stato, non possiamo che tentare di ricostruire la totalità che coloro ci tengono nascosta. Per prima cosa non vogliamo confondere gli effetti con la causa; e la causa va ricercata nelle trasformazioni che, negli ultimi decenni, ha subito il modello di sviluppo dei paesi africani, aggrediti dalla “vocazione territoriale del capitale multinazionale”. In altre parole, la migrazione di milioni di persone dal sud, dal centro e dal nord Africa è l’amara conseguenza delle spinte aggressive esercitate dal capitale multinazionale nei confronti di quell’intero continente. Parlare di abbandono dei paesi d’origine, di morte in mare per migliaia di profughi, nasconde lo sfruttamento da parte di quegli stessi paesi verso cui i “dannati” fuggono. Nulla ci dice del fatto che il nuovo olocausto ha preso le mosse dalla parola d’ordine lanciata dai signori della terra, i quali nel Global Compact for Migration hanno sancito: «bisogna uscire dalla cooperazione piagnona». A seguito di quella parola d’ordine è stata cancellata ogni assistenza all’Africa e si è trasformato quel continente in un gigantesco territorio di conquista del capitale privato.
Ci viene detto che gli africani fuggono dalle guerre; però, si tace sul fatto che nell’ultimo decennio le guerre africane si sono ridotte del 70%. Fa comodo deviare l’attenzione dalle vere responsabilità, nascondere le colpe. Da alcuni anni a questa parte l’Europa, la Cina e gli Stati Uniti hanno portato avanti una “invasione” dell’Africa compiuta da migliaia di imprese occidentali dedite al saccheggio delle risorse, dei territori e delle già povere economie territoriali. Di questo saccheggio, di questa ennesima ruberia, nessuno parla: saccheggio e ruberia che hanno fatto salire il livello di miseria e il divario tra i diversi paesi. Un esempio: i cinque paesi africani meno poveri hanno un reddito 35 volte più alto di tutti gli altri (fonte CeSPI); la devastazione è spaventosa. È questa la guerra che scuote l’Africa.
Il continente africano rappresenta la preda più ghiotta del capitalismo multinazionale. Passata la lunga e devastante era coloniale, un nemico ancora più micidiale si è introdotto in Africa. Se i processi di colonizzazione hanno creato economie fondate sulle specializzazioni produttive e trainate dall’accaparramento di materie prime e risorse del sottosuolo, il capitalismo multinazionale dei nostri tempi sta prosciugando le ultime energie di quel continente, provocando un abbandono dei territori che non ha precedenti nella storia. La nuova economia, ad alta intensità di capitale e bassi tassi di impiego di forza-lavoro, che funziona al costo di un altissimo livello di inquinamento (si pensi alla distruzione del delta del Niger ad opera dell’italiana ENI) e della devastazione delle economie locali, che genera governi antipopolari e oppressivi, è il nuovo nemico degli africani; è da lui che si fugge.
Il capitale italiano ha enormi responsabilità nei confronti della spoliazione dell’Africa. In termini di giro d’affari con quei paesi, l’Italia occupa il terzo posto, venendo dietro la Cina e gli Emirati Arabi. I fondi che nei decenni passati l’Italia destinava alla cooperazione (una manciata di milioni), oggi sono finalizzati in prevalenza a finanziare l’apertura di campi profughi. In Kenya, per esempio, sono stati realizzati con finanziamenti europei i campi profughi più grandi del mondo – Dadaab, con 344 mila presenze, e Kakuma con 189 mila presenze – a dispetto del fatto che i costi per quel paese sono proibitivi al punto che si minaccia di chiuderli.
Il settore di Confindustria, “Assafrica & Mediterraneo”, fornisce supporto logistico e finanziario alle imprese che si spostano nel continente africano Il supporto politico viene fornito dai nostri soliti uomini di Stato: a questo miravano i viaggi di Renzi tra il 2014 e il 2016, le visite di Mattarella in Etiopia e in Camerun, le tante conferenze sullo “sviluppo” dell’Africa, come quella organizzata dal ministro Martina nel 2016 e le mille altre iniziative messe in piedi dallo spirito predatorio (pardon, imprenditoriale) del capitale nostrano.
Questi i risultati: nel giro di qualche anno, il valore delle importazioni dall’Africa è calato in maniera drastica (nel solo 2014 è sceso di 8 miliardi di euro), mentre le esportazioni sono cresciute di oltre il 30%. I prodotti italiani più esportati sono gli alimentari, seguiti dai prodotti elettronici e chimici, dai macchinari e dalle apparecchiature industriali; un aumento che marcia alla velocità del 43%. Nel 2015 l’Italia esportò in Africa manufatti per oltre 18 miliardi, tra cui 4,8 miliardi di macchinari e apparecchiature, 2,7 miliardi di prodotti per la raffinazione del petrolio, 1,5 miliardi di prodotti metallurgici. Di contro, l’importazione dall’Africa si è dimezzata, con la conseguente chiusura di una parte consistente di quella industria e con un tasso di disoccupazione che supera di parecchio il 50% della forza lavoro.
Il settore agroalimentare italiano, il cui impatto geopolitico è ormai generalmente riconosciuto, fa la parte del leone. Come affermava nel 2015 l’allora ministro Martina: «l’Africa ha un valore economico strategico proprio nel settore agroalimentare» – un valore strategico che portò dritto dritto al tracollo dell’agricoltura africana, in particolare di quella egiziana e angolana. Una buona fetta delle terre coltivabili africane sono utilizzate dal capitale italiano per impiantare coltivazioni selvagge, che non devono sottostare ai vincoli che l’Europa impone alle nostre campagne. L’Italia & Co., però, hanno licenza di avvelenare la campagna africana con pesticidi, fertilizzanti proibiti, diserbanti. I prodotti agroalimentari tornano quindi sulle tavole degli italiani e degli europei, mentre l’Africa rimane priva di terra e dei suoi prodotti.
È su questa trasformazione del modello di sviluppo, che va sotto il nome di globalizzazione o di finanziarizzazione dell’economia e che ha avuto inizio alcuni decenni addietro, che si è innescata la fuga di massa. Si tratta della medesima trasformazione che qui da noi, in Sicilia, sta costringendo migliaia di persone – giovani, lavoratori e insegnanti – all’emigrazione forzata. Al di là delle dimensioni, il meccanismo di depauperamento è il medesimo. Uguali sono i modelli economici, uguali le strategie industriali, uguale la ripercussione sociale. Non ci resta che concludere con le parole che Frantz Fanon rivolgeva a tutti i “dannati della terra”: «…..vittime della spoliazione dei vostri territori, dei vostri corpi, delle vostre anime. Vittime dell’Occidente – dunque nostri fratelli».
fonte img: cartoon movement