L’Offshore Ibleo e la raffineria “green”.
L’interesse di ENI per il gas naturale risale alla metà del secolo scorso, dopo la scoperta a Caviaga, Cornegliano e Bordolaro dei primi giacimenti di metano. L’uso del metano a scopo industriale e domestico fu al centro delle politiche energetiche ed espansionistiche di Enrico Mattei. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso furono scoperti grossi giacimenti anche in Sicilia; oggi il metano siciliano si produce in un’area che comprende tre provincie (Caltanissetta, Catania ed Enna) e 12 Comuni. Negli ultimi anni ’70 ENI avviava l’esplorazione del “bacino ibleo”, in zone del gelese e del ragusano. Le ricerche si fermarono negli anni ’90, anche in funzione dell’aumentata importazione di gas dalla Russia. Molte scoperte furono abbandonate, molti progetti ritirati, le raffinerie subirono un arresto di produzione. In questi ultimi anni le cose sono cambiate. La crisi del petrolio spinge le compagnie più forti alla riconversione degli impianti, come è avvenuto nella Gela del petrolchimico e della sbandierata Green Refinery. A sentire la voce del colonizzatore ENI, sembrerebbe che produrre gas metano per usi domestici e industriali sia meglio che produrre benzina: inquina meno, costa meno, porta sviluppo, porta capitali, porta lavoro.
ENI è una multinazionale, tra le prime dieci compagnie petrolifere del mondo insieme a Shell, Exxon, British Petroleum, Chevron, Total e Gazprom; è presente in 85 paesi, occupa 79 mila dipendenti, fattura ogni anno 100 miliardi di euro. In passato, ENI diceva di portare lavoro ai siciliani, ma portava morte, malattia, miseria sociale e culturale. Oggi a parole promette di ridare aria pulita, magari facendosi forte del fatto che il metano è invisibile all’aria, ma nei fatti si prepara a trasformare Gela e i paesi circostanti in enormi camere a gas, che potrebbero esplodere come piccoli e micidiali vulcani. Dare ascolto alle favole di ENI sull’inquinamento, per chiunque conosca cosa hanno già significato per il territorio siciliano, è peggio che suicidarsi; è avallare l’omicidio di massa. Pertanto scordiamoci delle favole e guardiamo le cose come sono!
Nel 2013 ENI presentava al governo il nuovo programma “Offshore Ibleo”, finalizzato alla riapertura di due giacimenti marini già esistenti, Argo e Cassiopea, profondi 600 metri e a distanza di pochi chilometri dalle coste di Licata, di Palma di Montechiaro e dei popolosi insediamenti costieri. Il progetto prevedeva l’esplorazione, l’estrazione, il trasporto e la raffinazione del gas metano contenuto in quei giacimenti. Si programmavano attività in mare, come la perforazione al largo di Licata di nuovi pozzi, la costruzione di una seconda piattaforma (Prezioso K), la posa di condotte subacquee. ENI progettava anche di portare il gas per la raffinazione nell’impianto ex-petrolchimico di Gela. Il costo dell’operazione ammontava a 1 miliardo di euro, con una stima di produzione pari a oltre 10 miliardi di metri cubi nell’arco di tempo di 14 anni. Il governo approvò definitivamente il progetto nel febbraio del 2018, dopo che il Consiglio di Stato ebbe bocciato i ricorsi presentati non solo dagli ambientalisti, ma anche da molti Comuni (Licata, Palma di Montechiaro, Santa Croce Camerina) e dall’intera Anci Sicilia.
Il progetto ENI segnò il passo, in conseguenza del blocco della produzione nazionale, della costruzione del gasdotto Greenstream (peraltro, di proprietà ENI al 75%) che si aggiunse al grande metanodotto Transmed. Per lungo tempo non si costruirono nuove piattaforme, anche per l’immane incidente sulla piattaforma Macondo che aveva riversato per oltre tre mesi petrolio nel golfo Persico e sulle coste sudorientali degli Stati Uniti. Il progetto Offshore Ibleo andò incontro nel corso del tempo a numerose trasformazioni e rettifiche; ultimamente ha ripreso slancio, nell’ottica che molti colossi della produzione energetica stanno adottando per il passaggio dal petrolio al gas. In questo quadro, se da una parte ENI chiude il petrolchimico di Gela, dall’altra decide di convertirlo in una mega-raffineria di gas metano.
La struttura che ENI intende costruire tra Gela e il mare di Licata sarebbe il terzo gasdotto dell’isola, dopo il Greenstream libico e il Transmed algerino-tunisino. A questi tre presto se ne aggiungerà un quarto, lungo 151 chilometri, che coprirà il tratto di mare tra Malta e Gela. Dopo le devastazioni a cui è andata incontro nei decenni scorsi, adesso Gela dovrà imparare a proteggersi dalle emissioni di gas metano nell’ambiente. Al pari di Gela, l’isola è sul punto di diventare un punto di snodo dei gasdotti mediterranei, il luogo di stoccaggio del gas metano, con cisterne in giro per l’isola, navi, centrali di raffinazione, condotte, mari avvelenati, terreni sterili, senza vita. Un’operazione geopolitica di marca coloniale; un’operazione ghiotta per il capitale internazionale e strategica per l’Europa ancorché devastante per il territorio siciliano e per i suoi abitanti.
Il padrone, ad evitare equivoci, rassicura e giura sfacciatamente: «il metano ti dà una mano». In Sicilia la mano di ENI si è già vista all’opera; ha già sparso tumori e morti premature; ha inaridito il suolo, le falde acquifere, i fiumi, il mare, l’aria. Una mano mortale per ambiente, società, economia: una e trina, in quanto a origine e conseguenze.
La mano ambientale di ENI
In primo luogo, gli studi lo dicono chiaramente, i rischi dei gasdotti nascono dalle variazioni di pressione nelle fasi di passaggio del metano dallo stato liquido a quello gassoso, dai conseguenti abbassamenti delle temperature interne, dagli innalzamenti di quelle esterne e dalle inevitabili perdite e sfiati. Nella fase di estrazione dai pozzi in mare, il timore maggiore nasce dalla formazione degli idrati che si depositano sui fondali, avvelenando flora e fauna. Agli idrati si aggiungono i detriti rilasciati dalle trivelle. Nelle stazioni di compressione, se non bastasse, i rischi si presentano al momento della rimozione del gas naturale dagli idrocarburi pesanti, quando le cisterne vengono portate a pressioni e temperature molto basse. Inoltre, la compressione e lo stoccaggio del gas provoca frequenti sfiati, fughe di gas non intenzionali, emissioni per combustione incompleta, emissioni pneumatiche provenienti dalle valvole e dalle apparecchiature di regolazione. Si tratta, come riconoscono tutti gli studi in materia, di emissioni pericolose per la salute e l’ambiente. Il metano è invisibile e inodore, quindi non se ne percepisce la presenza. Allo stato gassoso, il metano è altamente infiammabile, può esplodere e incendiarsi quando è sotto pressione o subisce un improvviso riscaldamento – che succede quando soffieranno gli scirocchi? ENI non risponde!
La PANGAS, fonte assolutamente credibile dal momento che produce essa stessa gas per usi tecnici e medici, scrive che «il metano può formare atmosfere esplosive nell’aria. Il gas metano è tossico e contribuisce all’effetto serra». Da una scheda sul metano della EDISON leggiamo qualcosa sui pericoli fisico-chimici: «Il metano forma con l’aria miscele infiammabili ed esplosive. Può accumularsi sotto tettoie o coperture, entrare nelle abitazioni. Nel caso di gas a bassa temperatura, la densità può diventare maggiore dell’aria con rischio di accumulo a livello del suolo e incendio. L’espansione brusca del gas in pressione può provocare un forte abbassamento di temperatura con pericoli di ustioni da freddo». Nella stessa scheda vengono elencati i rischi per la salute: «Emicrania, irritazione agli occhi, malessere, nausea e vomito, vertigini, disagio mentale e letargia, palpitazioni fino all’arresto cardiaco, difficoltà di respirazione, soffocamento fino all’asfissia». Lo studioso americano Bernard Endres, esperto di impianti di stoccaggio alla California University, scrive: «L’esperienza ha dimostrato che gli impianti di stoccaggio del gas possono creare un serio rischio di esplosione e incendio, e non dovrebbero essere situati in vicinanza dei centri abitati». È infine appurato che gli effetti del gas naturale “secco” proveniente dalle fonti sottomarine soffoca la fauna marina e le alghe, già intossicate dalla presenza degli idrati.
In via preventiva, ENI promette di costruire qualche “trappola” per la selezione degli idrocarburi liquidi, delle acque di produzione e di quelle di scarico, ma tace sulla loro rimozione; ovviamente, si tratta di acque altamente tossiche che in parte finiranno, a dispetto delle “trappole”, nelle falde acquifere, nel fiume Gela e nel mare circostante.
NO al gasdotto e alla Green Refinery
SI alla bonifica del petrolchimico e delle aree limitrofe
La mano sociale di ENI
La dismissione del petrolchimico di Gela ha comportato la perdita di oltre diecimila posti di lavoro, se si mette in conto anche l’indotto. Attualmente il petrochimico dà lavoro a poche centinaia di operai. Il tasso “ufficiale” della disoccupazione a Gela è del 28% (di 5 punti maggiore che nel resto della Sicilia); molti emigrano, altri accettano lavori a tempo, per paghe inesistenti; un quarto della popolazione di Gela è analfabeta; la disoccupazione giovanile supera il 60%; quella femminile è al 57%. Dice padron ENI che queste condizioni saranno alleviate dalla nuova “green production”; in verità l’assorbimento di manodopera alla nuova raffineria è insignificante, un pugno di occupati contro una marea di disoccupati e cassintegrati.
Se Gela piange, Licata non ride. Anche qui si contano oltre 2000 disoccupati; anche qui centinaia di emigrati. La popolazione di Licata in un decennio è passata da 39.280 (dati del 2007) a 37.008 (dati di oggi). Molti di loro, oltre trecento famiglie, vivono di pesca. La disperazione dei pescatori è nota, come è nota la loro determinazione a non cedere. Dopo le false promesse dell’Osservatorio Regionale, istituito nel 2008 per “tutelare l’ambiente marino a supporto del sistema delle imprese della filiera ittica”, i pescatori di Licata tornano dal mare con le reti piene di detriti fangosi, pesci morti, alghe fetide. Un grave danno alla pesca, che si riflette sull’indotto e sull’intera economia locale, dal piccolo commercio all’artigianato al turismo.
Le colpe dell’Offshore Ibleo per il determinarsi di drammatici risvolti sociali sono facilmente intuibili; non valgono solo per singole categorie di lavoratori (pescatori, piccoli commercianti, artigiani) ma per l’intera popolazione di Gela, di Licata, di Palma e del circondario, esteso per un raggio di qualche chilometro. I sindacati, sempre pronti a credere alle dicerie del padrone, spingono nella direzione sbagliata: verso la raffineria e verso il gasdotto. Tutto ciò, nel nome di un diritto al lavoro che, in ogni caso, sarebbe meglio e più ampiamente garantito lavorando per le bonifiche ambientali.
NO al lavoro in raffineria
SI ai lavori di bonifica
Potere alle comunità territoriali
La mano economica di ENI
Gli interventi che ENI dovrebbe compiere per rispondere al Programma Nazionale di Bonifica (DPR del 17 gennaio 1995) vanno a rilento. La percentuale dell’area bonificata all’ex-petrolchimico è minima. Molti scarti pericolosi sono ancora sotterrati, come hanno denunciato alcuni operai. Nel complesso il danno economico perpetrato da ENI sul territorio di Gela si estende su una superficie di 4,7 km quadrati. Anziché impegnare il proprio capitale nell’Offshore Ibleo, ENI dovrebbe essere costretta a finanziare le bonifiche che coprono quasi interamente l’area della raffineria (come si vede dalle macchie scure nell’immagine di copertina). Di queste ingiunzioni, però, le eminenze regionali non vogliono che si discuta; Musumeci si guarda bene dall’intervenire in una materia così scottante, che metterebbe in difficoltà il gigante multinazionale.
Come se il regalo non bastasse, ENI è esentata da ogni pagamento alla Regione e ai Comuni, dal momento che il gasdotto ibleo è subacqueo e le condutture non poggiano sul suolo terrestre. Viene di fatto abolita la delibera regionale sui “tributi ambientali” che imporrebbe a ENI (Art. 6 L.R. 26/03/2002, n.2) di ripagare la Regione per il danno ambientale provocato dai gasdotti. Per chiudere in bellezza, ricordiamo che sebbene i costi di produzione del gas metano siano bassi e sebbene non siano appesantiti da royalties, le bollette siciliane sono tra le più alte del paese. A fronte di tutto questo, il Governatore continua a firmare autorizzazioni per le opere di terra dell’Offshore Ibleo. Il padrone coloniale ENI può vivere tranquillo: botte piena, moglie ubriaca. La Sicilia, però, è stanca; non ne può più.
NO alle autorizzazioni regionali e comunali per le opere di terra
Chi inquina paghi le bonifiche
Esenzione dal pagamento delle bollette del gas
Risarcimenti alle vittime dell’inquinamento
Le mani del territorio
Nelle passate fasi di lotta contro le trivelle, si è puntato il dito sull’inquinamento marino e terrestre. Sono stati presentati diversi ricorsi alla magistratura e ai tribunali amministrativi; nessuno ha avuto esito positivo. Per quanto si sia riusciti a ritardare il progetto, la ciccia dell’Offshore Ibleo è rimasta. Apparenti vittorie, come il blocco della costruzione della piattaforma Prezioso K o il fermo momentaneo delle trivelle o le rettifiche del progetto, qualche volta si sono dimostrate scelte tattiche della compagnia. Ciononostante, quelle lotte hanno messo le basi per una opposizione popolare all’Offshore Ibleo, che torna in piazza per fermare la mano criminale di ENI. Dal momento che il progetto ha ripreso vigore ed è entrato in fase operativa, mentre ENI va strombazzando i soliti alibi del metano che non inquina e dei posti di lavoro che mancano, mentre i politici fanno finta di niente, è necessario che l’opposizione popolare si faccia risentire con forza. Occorre riaffermare con decisione che il progetto Offshore Ibleo, come altri progetti di devastazione territoriale, è figlio di un modello di sviluppo centrato sugli interessi delle grandi imprese e non sugli interessi delle comunità territoriali. Occorre che le popolazioni prendano nelle proprie mani le sorti del territorio. Altre strade non ce ne sono. La forza trasformatrice sta nelle mani di chi i territori li abita e li difende; nelle mani dei pescatori, dei disoccupati, dei precari, di tutti quelli che non intendono emigrare, di chiunque desideri vivere in un ambiente sano, accogliente, pacifico e, per dirla tutta, indipendente dal capitale.
legenda immagine: la macchie scure indicano le aree inquinate; quelle celesti le aree da testare; le due verdechiaro in alto a sinistra sono le aree bonificate dopo 5 anni di lavori; la linea verde segna la pipeline che unisce la raffineria al gasdotto marino.