Oltre il Ddl sicurezza. Appunti su Stato, sicurezza e punizione.
Mentre imperversa la polemica al Ddl sicurezza (ora rinominato Ddl 1236 al Senato) e fatica a montare la lotta, crediamo sia necessario uno sforzo collettivo di messa a fuoco del contesto per non smarrire la strada.
Come recita il vecchio proverbio: «lo stolto guarda il dito mentre il saggio indica la luna». Siamo ben lontani/e dal ritenerci saggi/e e questo testo non ha certo l’ambizione di scorgere la luna, ma rappresenta piuttosto il tentativo, per noi, di guardare oltre il dito, ovvero oltre l’immediatezza del dibattito di queste settimane.
Il 18 settembre è stato approvato alla Camera il Ddl 1660 ora in discussione al Senato, noto come “Ddl sicurezza”. Definito da Antigone “il più grande attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana” rappresenta l’ennesima stretta repressiva varata dal parlamento a fini securitari.
A quale sicurezza guarda questo nuovo disegno di legge? Cosa possiamo fare a riguardo? Prima di rispondere a queste domande proponiamo un piccolo esercizio di memoria
Solo all’inizio di quest’anno il governo Meloni ha destinato un miliardo e mezzo di euro per l’aumento degli stipendi del comparto sicurezza, autorizzato 17.000 nuove assunzioni nello stesso e previsto una spesa per la difesa di 32 miliardi di euro nell’anno 2025. Ma andiamo ancora indietro nel tempo.
Nell’ottobre del 2018, il governo Conte approvava i Decreti sicurezza, con pesanti restringimenti in termini di soccorso e accoglienza dei migranti, maggiori poteri alla polizia locale, introduzione della pistola “taser” ed estensione dei DASPO urbani, il tutto al fine di garantire maggiore sicurezza dei confini e ordine pubblico.
Nel 2017 il governo Gentiloni approvava ben 3 decreti in materia: Decreto sicurezza al cui centro vi era l’introduzione del Daspo urbano (inaugurato con l’espulsione preventiva di manifestanti arrivati a Roma), il Decreto Minniti per l’apertura di nuovi CPR (Centri Permanenti per il Rimpatrio) e procedure più rapide d’espulsione dei migranti, il Decreto cyber security su esplicita richiesta del DIS (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza) per una maggiore sicurezza informatica.
Nel 2014 il governo Renzi approvava un finanziamento di 780 milioni al comparto sicurezza mentre metteva in atto il Decreto Lupi per la sicurezza dei proprietari e degli imprenditori.
Nel 2013 il governo Letta dava il via al progetto Mare Nostrum, poi divenuto Triton di Frontex ai fini di sicurezza e controllo delle frontiere.
Potremmo continuare a ritroso. Questo elenco non esaustivo pensiamo basti a chiarire – qualora fosse necessario – quanto il tema della sicurezza sia inestricabilmente connesso a quello della repressione politica e sociale, così come del controllo dei confini dello Stato-nazione in tutte le politiche, recenti e passate, dei governi nazionali.
Per tornare alla metafora iniziale, considerare questa declinazione del concetto di sicurezza una peculiarità dello Stato italiano, sarebbe guardare il dito.
Lo Stato: la guerra dentro e fuori
Era il 2023 e inauguravamo con queste parole la nuova categoria del nostro sito dedicata al tema: «L’afflizione dello Stato sui territori non è certo una novità. La centralizzazione del potere, la definizione di confini tracciati col righello, il tentativo di omogeneizzazione, il depredamento delle risorse, solo per citarne alcuni aspetti, sono espressione di una modernità che ha affidato agli stati-nazione la gestione della nostra Terra.
Quanto questo abbia contribuito a sfaldare, depauperare e depredare i territori, passando dall’annullamento della partecipazione e capacità decisionale di chi abita i luoghi, è un tema ancora troppo poco dibattuto e affrontato. Il carcere e gli abusi, le violenze manu militari, sono i mezzi principali che hanno permesso che tutto ciò accadesse.»
Assumeremmo il ruolo dello stolto quindi se non ci soffermassimo un attimo sul ruolo dello Stato in questa storia. Lo Stato, il Leviatano di Hobbes, è ancora oggi uno dei fenomeni umani meno compresi e più pericolosi per la società contemporanea, perché dato per scontato ed eterno.
Ma lo Stato non è sempre esistito e non rappresenta un’autorità qualsiasi, bensì in primo luogo un’autorità politico-militare. La guerra è il DNA dello Stato-nazione.
Lo descrive in maniera semplice e lineare il filosofo e poeta Bruno Misèfari, calabrese e disertore, incarcerato durante la prima guerra mondiale: «Che cos’era lo Stato? Quel che è sempre stato da secoli: la guerra dentro e fuori i confini della “patria”»
Non solo, mentre continua a crescere nei suoi apparati, una falsa narrazione contemporanea lo racconta come “invisibile” e sempre meno presente, ma Zibechi, con la solita puntualità ci ricorda: «Contrariamente a quanto sostiene gran parte della sinistra, il neoliberismo non comporta meno, ma più Stato. Se lo guardiamo nel suo insieme, vediamo che la militarizzazione è la risposta strutturale del capitale per procedere all’espropriazione, controllare i popoli che vi resistono e incoraggiare l’accumulazione violenta ed espropriatrice. È lo Stato che militarizza i territori in cui vivono i popoli: il capitale non avrebbe la possibilità di compiere i suoi misfatti senza questa presenza devastante dello Stato.»
In Sicilia ne sappiamo qualcosa. L’esproprio di risorse, la rottura di relazioni tra le comunità e con i territori nella loro complessità sono tutti processi di affermazione della forma Stato nei luoghi che abitiamo, ed è una storia che condividiamo con la maggior parte dei territori del pianeta.
D’altronde se, come suggerito da Abdullah Ocalan, teorico del confederalismo democratico, guardiamo l’esempio sumero – esperienza fondativa del modello statale – ci appare chiaro come lo Stato ebbe sin dall’inizio funzioni intrecciate tra loro vale a dire la centralizzazione ed organizzazione del sistema produttivo/riproduttivo, la guerra verso l’esterno per l’accaparramento delle risorse e repressione dei conflitti interni.
Come strumento repressivo e di dominio, lo Stato è quasi insopportabile da sempre. Nonostante ciò, come strumento di “pubblica sicurezza” è ancora oggi considerato indispensabile.
C’è da chiedersi, quindi, se la società sia o meno in grado di provvedere alla sicurezza comune senza lo Stato. Ma di quale sicurezza parliamo?
La Sicurezza al centro
Per le società umane è sempre stato inevitabile confrontarsi con una questione che ancora oggi riteniamo centrale, ovvero se la “sicurezza” comune, intesa come a servizio della collettività e dei beni comuni, richieda o meno repressione e autorità, e di quali strumenti dotarsi per interagire con i conflitti e le asimmetrie di potere.
Con la complicità dell’organizzazione gerarchica, uno strumento in particolare è emerso sempre più per rispondere a questa esigenza. Strumento che ancora oggi è delegato alla gestione materiale della sicurezza e dell’ordine pubblico: la polizia.
Riportiamo qui parole che vengono dal “campo nemico”. Alberto Francini, Dirigente Generale di Pubblica Sicurezza, nel suo “Storia della Pubblica Sicurezza” fa un’incursione nella storia della Roma imperiale e scrive:
«Questa polizia, tetro simbolo di crudeltà, traeva dietro di sé l’ intervento della forza armata su tutto il territorio dello Stato per arrestare ed opprimere. Ma poiché la forza può edificare solo quando rappresenta il diritto, il furbo Augusto, che non tralasciava nulla per tener doma e ubbidiente la plebe, per dare alla polizia apparenze d’istituzione civile, inventa nomi ingegnosi per i suoi funzionari: stazionarj, irenarchi, latruncolatorj, curagendarj, frumentarj, ecc.. Addirittura lo stesso carnefice viene appellato sacerdote e del condannato a morte si diceva: “sacer esto”.
Tuttavia, nonostante ogni accorgimento imperiale, la polizia, nell’opinione del popolo pensante, nulla occultò del suo spaventevole orrore e le rimase impressa indelebilmente un’ immagine di repressione e crudeltà. La polizia, in Roma, fu il terrore, come anche in altri Stati orientali.
Con queste tradizioni essa prosegue lungo il corso della Storia arrivando, molti secoli dopo, agli stati assoluti dell’epoca moderna, portandosi appiccicato addosso tutto il carico della sua impopolarità.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, come il legislatore degli stati liberali e di diritto, in epoca contemporanea, quasi inconsciamente vergognandosi di tale peccato d’origine, abbia ripudiato il nome di polizia, nei suoi ordinamenti giuridici, sostituendolo con quello meno compromesso di pubblica sicurezza.
La polizia, come d’altra parte tutte le cose umane, ha dunque un peccato originario che consiste nelle ingrate memorie, nelle tradizioni dell’antica autorità di cui, volente o nolente, rappresenta la continuazione. Pertanto a lungo è stata considerata (e forse, in un certa misura, lo è ancor oggi) come il barometro politico che indicando al Governo i diversi gradi delle alterazioni sociali, lo mette in grado di impedire alle acque di diventare tempestose, preservando, quindi, le Istituzioni da sicuri naufragi.»
Che la polizia – o la pubblica sicurezza – sia indissolubilmente legata alla metodica pratica della prevaricazione e della violenza, in tanti ne fanno esperienza ogni giorno. Dal punto di vista della sua funzione entro i più complessi meccanismi dello Stato, la polizia è sostanzialmente diversa da ogni altro organo di governo in quanto è la ricaduta materiale di uno dei pilastri dello stesso – ovvero il monopolio della violenza. Anche attraverso la polizia, lo Stato chiarisce cosa è violenza e cosa non lo è, o eventualmente quali forme di violenza sono da considerare legittime e quali no.
Una delle caratteristiche principali è probabilmente che, a differenza di altri meccanismi coercitivi, il potere della polizia e la minaccia della violenza funziona anche in potenza: la polizia è una forma di violenza che non ha bisogno di concretizzarsi per determinare il proprio effetto deterrente. Essa è uno spettro costante che può prendere corpo in qualsiasi momento.
Nikhil Pal Singh, autore di “Razza e la lunga guerra d’America” e professore della New York University in merito scrive: «Se polis e sistema di governo sono i soggetti democratici e autogovernanti, la polizia è la forza ombra che dice: “Noi esistiamo per esercitare l’autorità quando voi non siete più in grado di governarvi da soli. Noi esistiamo per controllare e controllare la violenza nella società, arrogandoci il diritto di usare quella violenza”»
Quando parliamo della polizia dobbiamo parlare, quindi, della violenza e dobbiamo parlare del potere. Del modo in cui la polizia opera all’interno della società per mantenere un certo status quo, del modo in cui gli agenti di polizia contribuiscono alle ingiustizie del potere, anche inconsapevolmente. Del modo in cui la polizia detiene un potere.
In democrazia si sa “il potere è del popolo”. Ma alla domanda semplice “nelle democrazie contemporanee, chi ha più potere la polizia o i cittadini?” la risposta è piuttosto immediata.
Il potere della polizia è un potere istantaneo. E’ qui e ora: un tipo di potere conferito dalla prevaricazione e legittimità nell’uso della violenza che nessun altro cittadino ha.
Sviluppando il tema del dominio, Rey Kelly inquadra gli stop-and-frisk (ovvero la possibilità che ha la polizia di fermare e di perquisire solo per via di un “ragionevole sospetto”) come un elemento di segregazione mobile. Secondo l’autore, i fermi di polizia hanno il compito principale di instillare paura tra la popolazione, consapevole di poter subire in ogni momento e in modo arbitrario una procedura di controllo invasiva e violenta che, come è noto, ha anche determinato la morte di moltissime persone appartenenti soprattutto a comunità non bianche in tutto il mondo.
Qualcuno a questo punto, al fine di difendere una causa persa, potrebbe dire sul tema che ogni perquisizione va autorizzata da un giudice, almeno in Italia. La verità, diciamocelo, è che l’autorizzazione può avvenire postuma fino a 48h dopo e spesso non avviene, ma non solo.
Riportiamo direttamente le parole del giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America William Douglas, sicuramente meno di parte, che in merito disse: «Oggi affermiamo che la polizia ha un’autorità maggiore per effettuare un ‘sequestro’ e condurre una ‘perquisizione’ di quanto un giudice abbia per autorizzare tale azione.» Affermando, in quell’occasione che lo Stop-and-frisk avesse di fatto aumentato in maniera spropositata il potere discrezionale di cui dispongono le forze dell’ordine, stante l’assoluta inconsistenza del concetto di “ragionevole sospetto”.
La possibilità di essere fermati e perquisiti è presente, sempre.
E la pervasività del meccanismo dovrebbe essere richiamata alle nostre menti semplicemente dalla gamma di emozioni che si provano davanti ad un poliziotto con la paletta, mentre si guida un’auto in regola con la cintura allacciata.
Se consideriamo la polizia in modo sistemico e pensiamo a quale forza smisurata detenga, e riflettiamo sulla quantità di istituti penitenziari, di persone detenute, condannate con pene alternative, sorvegliate, indagate, segnalate, perquisite o semplicemente fermate è facile capire che si tratta della maggioranza delle persone. Se si è curiosi/e di dati più precisi, è sufficiente consultare il sito del ministero degli interni.
Qualcuno in modo più diretto, altri in maniera tangente ma la maggior parte degli abitanti è o è stato coinvolto direttamente nel sistema repressivo e/o punitivo predisposto dallo Stato.
L’agenda politica della nostra modernità ha messo la sicurezza al centro dandole progressivamente, nel tempo, sempre più rilievo. Oltre agli aspetti sistemici, l’ansia individuale in crescita porta a una sempre maggiore richiesta d’intervento con l’illusione di costruire piccole isole sicure. Quando però la sicurezza diventa il nuovo sinonimo di “bene” tutto può essere sacrificato in suo nome; non solo, a farne le spese è lo spazio del “comune” da cui ci si estrania perché naturalmente eterogeneo e quindi non sicuro. La società frammentata, individualizzata, della nostra contemporaneità è una società insicura che cerca nella punizione/repressione un appiglio. Sicurezza a suon di maggiore polizia, maggiore repressione, maggiore controllo, ma anche maggiore sicurezza che il presente e l’ordine che lo regola non venga alterato. Parlare di sicurezza, dunque, rimanda immediatamente al coro bipartisan che chiede “sicurezza della pena”.
Punizione
Nel tentativo di allargare l’inquadratura e di andare oltre al dibattito sul Ddl 1660 non possiamo non includere nella discussione uno degli elementi più concreti e materiali che regolano il rapporto tra Stato e sicurezza: il carcere.
Gli istituti penitenziari, anticamente “patrie galere”, rivelano nel loro stesso nome la finalità: la penitenza.
Prima della riforma penitenziaria del 1975 il finalismo rieducativo era stato considerato dalla giurisprudenza costituzionale come elemento quasi accessorio della pena. Fu poi in maniera più ufficiale che, nel Congresso delle Nazioni Unite, tenutosi a Milano nel 1985, proprio in tema di riforma delle carceri e di “trattamenti dei delinquenti” , tutti i rappresentanti degli Stati presenti si dissero intenzionati a riformare le carceri proprio in senso rieducativo.
Ma il carcere è riformabile?
Già negli anni ’80 Tullio Padovani, professore emerito di Diritto penale presso la Scuola Superiore di Pisa, nel suo “L’utopia punitiva” evidenziava «la contrapposizione tra il pensiero riformatore teso all’inane e futile scopo di costruire un’amplissima gamma di sanzioni ed una realtà che s’incarica di costruire l’unica punizione congeniale ai suoi meccanismi di potere». In scritti più recenti sintetizza: «il cammino dell’istituzione penitenziaria verso la mitica riforma equivale alla corsa della tartaruga di Zenone col piè veloce Achille: la distanza non è mai colmata».
Parafrasando Padovani, la riforma che renderà il carcere umano e non punitivo è un mito. Dai sistemi penitenziari ottocenteschi ai tentativi più recenti, passando per quelle di impronta marxista e/o sociologico-psichiatrica, ogni riforma orientata in tal senso ha fallito.
D’altronde, bisogna riconoscere che è fallita la previsione degli anni Settanta sull’efficacia deflattiva dei sistemi che si occuperebbero della supervisione dei soggetti autori di reato(dal coinvolgimento dei servizi sociali, alle misure costanti di monitoraggio, ai braccialetti elettronici, lavoro non retribuito, altro), noti come sistemi di probation; né hanno avuto migliore fortuna tesi come quella del Foucault di Sorvegliare e punire sulla fine dei grandi internamenti e sul declino dei tradizionali sistemi punitivi, soppiantati da forme di controllo sociale diffuso: con buona pace dell’intellettuale francese, infatti, oggi siamo ben forniti di entrambi. Non ha funzionato nemmeno la teoria omeostatica dei livelli di incarcerazione nelle società moderne, di Alfred Blumstein: il criminologo della Carnegie Mellon University ha reso popolare negli Stati Uniti la teoria in base alla quale riteneva che esistessero meccanismi stabilizzatori per riportare alla “soglia naturale” il numero dei detenuti, per l’effetto di pratiche permissive o restrittive, a seconda degli eccessi o delle deficienze di popolazione incarcerata. Le cose sono andate diversamente. Le carceri ci sono ancora, e sono sovraffollate.
Le riforme penitenziarie falliscono per un motivo che non è tecnico ma politico, forse etico: giustizia trasformativa e punizione non stanno nello stesso paradigma.
Qualcuno dirà: sempre meglio del caro vecchio “occhio per occhio”! Eppure forse se accusati di furto ci venisse chiesto di scegliere tra una mano mozzata o 8 anni di reclusione, la scelta potrebbe non essere così ovvia.
Il/la detenuto/a è quindi innanzi tutto punito/a. Prima di qualunque forma di “rieducazione” è piuttosto il più possibile silenziato/a, emarginato/a dalla società.
Il carcere si sostanzia in un percorso costruito attraverso l’allontanamento dagli affetti, l’isolamento, la censura della posta, e molti altri strumenti concepiti per allentare i legami con “il mondo là fuori”. Con il Ddl 1660 lo si potrà fare anche con nuovi reati e anni di prigione (da due a vent’anni) per chi protesta, anche passivamente.
La “rieducazione”, per come la conosciamo, passa per la punizione. Il sottotitolo è: «devi cambiare per non essere più punito» e «sarai punito finchè non cambierai».
La punizione incombe costantemente, a maggior ragione per chi, agli occhi di chi giudica, “ha già sbagliato”. Finché si guarderà alla punizione, alla reclusione, all’esclusione di chi, per le ragioni più varie, non sta dentro la società, le comunità, per come le vorremmo (sia esso un imperdonabile mafioso, un “blackblock”, un uomo violento, un ineducato vicino troppo rumoroso, un incivile che scarica illegalmente rifiuti, ecc), prima che alle cause che hanno determinano il comportamento in oggetto, andremo poco lontano.
Non ce ne vogliano le “vittime” degli esempi appena trattati: li tiriamo in ballo solo perché possono essere utili a porci alcune domande:
Come possiamo costruire un’idea di una giustizia che si opponga all’ennesimo Ddl Sicurezza senza parlare di abolizione delle carceri, senza sradicare le fondamenta del sistema repressivo/punitivo, del “comparto sicurezza” in toto e senza interrogarci sul ruolo sociale che diamo alla repressione e alla punizione ai fini della “sicurezza”? Come possiamo pensare un’idea di giustizia che si opponga a questa “sicurezza” se per tutela della “vittima” intendiamo la disumanizzazione del “colpevole”? Come possiamo propagandare un’idea di giustizia che si opponga a questo Ddl Sicurezza se vogliamo solo sentirci “liberi” di manifestare a nostro modo mentre siamo pronti a puntare il dito sulle pratiche di protesta dell’altr e lasciarl in balia di una “meritata” repressione? Se siamo pronti a gettare la chiave della porta della cella (reale o metaforica) di chi crediamo non è abbastanza “redimibile” o “meritevole” di stare dalla parte di noi “giusti”?
A chi ci legge vogliamo parlare chiaramente: sappiamo bene che in un periodo di grande impotenza politica si ricercano soluzioni concrete e tangibili. Ma oggi più che mai è fondamentale resistere ed opporsi a ogni tentazione di farsi tribunale nelle assemblee, nei comitati e in tutti i contesti che attraversiamo. Oggi più che mai, mentre sentiamo che avremmo bisogno di certezze, di ancore a cui aggrapparci e di fari da guardare che confermino la rotta, è il momento di abbandonare le certezze e gli automatismi, di mettere in discussione quello che abbiamo imparato sulla risoluzione dei conflitti e sulla giustizia. Riportando le parole tratte da uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti in merito a cancel culture (cultura della cancellazione) e pratiche di giustizia femminista ci sembra utile porci alcune domande.
“Questo bisogno così potente di sentirsi nel giusto va interrogato più a fondo. In effetti, come vedremo, anche la paura di essere in errore, il senso di colpa sono il prodotto della stessa macchina securitaria che ci spinge a concettualizzare la nostra vita come gravida di pericoli e noi stessu come potenziali vittime, a organizzare il nostro attivismo politico attorno a questo (…) possiamo risolvere un conflitto, forse persino elaborare e guarire un abuso, senza per questo giustificare e perdonare le strutture sociali che sono la matrice di ciò che è successo (magari avendo capito che sono più complicate di quanto pensavamo). Ma a volte sembra estremamente difficile, per le nostre rigide coscienze di militanti, abbandonare questo piano morale o penale della responsabilità individuale, della condanna o dell’assoluzione.”
Come spiegano bene, nessuno è immune dall’aver introiettato gli schemi di un sistema repressivo/punitivo che fa presa sulla parte emotiva che trae soddisfazione dell’essere dalla parte del giusto, che ha bisogno di pensare che ci siano dei buoni e dei cattivi, che fa leva sulla paura di poter essere anche noi, in qualche modo, a un certo punto, contaminati, complici, dalla parte sbagliata.
Dobbiamo renderci conto che credere in un ideale di giustizie e non compromissione, che crea distanza, separazione tra chi fa bene e chi fa male, tra chi va punito, sorvegliato, monitorato e chi no, alimenta e consolida l’impotenza collettiva invece di ridurla.
Sappiamo già che in tempi di forte disgregazione sociale, tutti concorderemo fortemente sull’esigenza di soffiare sulla fiamma della potenza collettiva, della ricostruzione di legami sfilacciati; così come sappiamo che percepita da tutti è l’esigenza di istituzioni popolari, partecipative e democratiche, della diffusa delusione che la democrazia liberale degli Stati nazionali provoca (senza sorpresa, diremmo noi).