I pecchi catanesi: «Comu ti sanu sentiri?»
Dalla storpiatura del cognome al mestiere praticato; dalla forma fisica alla città o paese di provenienza: il pecco una volta affibbiato ti si cuce addosso ed è destinato a essere tramandato.
I pecchi hanno la finalità di accentuare, delineare e sfumare il profilo di una persona. Detti anche ‘ngiurie, si sostituiscono al cognome e sono una delle espressioni più interessanti delle tradizioni del popolo siciliano, traccia di un carattere spiccatamente umoristico.
Pecchi catanesi. Comu ti sanu senitiri?
La nascita di questa usanza si perde nel tempo. Quel che è certo è che, ancora oggi, è una delle tradizioni più diffuse in Sicilia e, in particolare, nella zona del catanese.
Fino a poco temo fa – e per molti secoli prima – l’uso singolo del nome e del cognome non era sufficiente a identificare una persona. Proprio per questo motivo gli abitanti delle comunità erano soliti far seguire al nomu propiu il pecco, che racchiudeva difetti corporali, abitudini, vizi e tutto ciò che era considerato dall’opinione pubblica come qualcosa di non buono.
L’utilizzo dei pecchi, però, andava oltre le motivazioni puramente strumentali. Infatti, esso permetteva alle persone di uscire dall’anonimato e, soprattutto, era un modo per legare la persona al proprio territorio, al proprio paese, alla propria famiglia e, in alcuni casi, attestava lo status che l’individuo aveva raggiunto all’interno della comunità stessa.
Spesso per identificare qualcuno si utilizza l’espressione «Comu ti sanu sentiri?» riferendosi chiaramente a che pecco viene utilizzato per identificarti. O ancora espressioni come «Tu acc’appatteni? Comu ci ricinnu a to’ patri?». Abitudine che in molti paesi della Sicilia rimane e si tramanda.
L’uso dei pecchi e la tradizione letteraria
L’uso dei pecchi è presente anche nella letteratura siciliana. Emblematico è il caso de I Malavoglia di Verga. Lo stesso titolo deriva da un modo ironico con cui la popolazione di Acitrezza era solita chiamare la famiglia di pescatori, che si distingueva proprio per la dedizione al lavoro.
Nelle opere di Verga, l’uso dei pecchi non si ferma qui. La nota novella Rosso Malpelo nasce proprio dall’appellativo che viene assegnato al protagonista della storia.
Volendo Verga rendere il linguaggio e i termini particolarmente popolareggianti, riempie le novelle di vari personaggi contraddistinti dai propri pecchi. Eccone alcuni: Mastro Misciu Bestia, cosiddetto perché considerato la bestia somma della cava; Ranocchio, chiamato così a causa del suo modo strambo di camminare; La Longa (Maruzza), detta così per la sua statura; padron ‘Ntoni, capofamiglia de I Malavoglia – in questo caso l’appellativo Padron serve anche per riuscire a differenziarlo dal nipote ‘Ntoni.
I Pecchi Catanesi e l’orientamento in città
L’abitudine di affibbiare suprannomini non si limita alle persone. Molte città, infatti, hanno negli anni conquistato vari pecchi.
Partiamo dall’elefantino simbolo di Catania, detto ‘U Liotru, talmente usato da essersi diffuso anche al di fuori dalla città. Ogni catanese che si rispetti, poi, riesce a orientarsi nella città grazie ai soprannomi dati ai monumenti: A Tapallira ‘do Buggu, la dea Pallace o Cerere; Re a cavallu, Re Umberto Primo di Savoia; ‘O panzutu, la statua di Garibaldi situata di fronte Piazza Bellini.
Ancora oggi l’uso dei pecchi è parecchio comune nel parlato catanese e non solo. Ciò rivela il forte legame che i siciliani ancora provano nei confronti delle loro radici e della lingua.
Mantenere la tradizione linguistica è fondamentale per salvaguardare l’identità siciliana ed esaltare l’orgoglio di appartenere a questa terra.