Perché (e come) fermare l’escalation?
«Fermare l’escalation» è lo slogan scelto per le manifestazioni che si terranno il 21 ottobre a Pisa, Ghedi e Palermo. A qualcuno non è piaciuto perché poteva fare intendere che la guerra senza escalation potesse essere considerata accettabile. Ma cosa è oggi la guerra? Cosa è il conflitto russo-ucraino? E cos’è quello israelo-palestinese? Vanno trattati allo stesso modo? E il dilagare dei conflitti in Africa? E la guerra in Nagorno-Karabakh? La guerra dimenticata nello Yemen? E quella in Siria del Nord, nei territori in cui si sperimenta il Confederalismo Democratico?
“Attualmente ci sono 55 conflitti armati attivi tra Stati, di cui otto hanno raggiunto il livello di guerra e 22 sono stati internazionalizzati, il che significa che una o entrambe le parti hanno ricevuto il supporto di truppe da uno Stato esterno.”
Non si tratta solamente delle centinaia di migliaia di morti, ma anche dei milioni di sfollati che queste guerre stanno producendo (28 milioni di sfollati interni in 11 Paesi africani; quasi 13 milioni di sfollati interni in 3 paesi del medio-oriente; quasi 6,5 milioni di sfollati interni in 3 paesi dellAsia; quasi 5,5 milioni di sfollati interni in 2 paesi dell’America latina) masse di persone senza più luogo e comunità di riferimento, prede di pestilenze e di violenze raccapriccianti.
Per chi non l’avesse ancora capito il mondo in cui viviamo è un mondo in guerra. Una guerra che va intensificandosi e diffondendosi. Sta tutta qui l’escalation: nella «progressiva intensificazione dello sforzo (militare, economico, ecc.)» e, per estensione, nel «progressivo aumento di intensità o diffusione di un fenomeno». È questo ciò che sta accadendo. Più che la continuazione della politica con altri mezzi, la guerra è divenuta la politica degli Stati, forma di governo della società.
La guerra come forma di governo della società
Vanno citati alcuni dati. Nel 2020 la spesa militare globale veniva stimata in 1.981 miliardi di dollari, il 2,6% in più dell’anno precedente e il 9,3% in più rispetto al 2011. Nel 2021 la spesa militare globale è ulteriormente aumentata per giungere a 2.113 miliardi di dollari (il 2,2% del Pil mondiale e nel 2022 ha raggiunto i 2.240 miliardi di dollari. Stati Uniti, Cina, India, Regno Unito e Russia pesano per il 62% del totale.
È in questo contesto che la società tutta viene messa al lavoro come “comunità dei civili” che contribuiscono all’implementazione del comparto militare e, in quanto vittime, al consumo delle armi. La società nel suo complesso lavora per l’acquisto delle armi e, al contempo, è consumatrice dell’industria militare. In poche parole la società torna ad essere, in forme e modi diversi, interamente arruolata. Accade così che mentre mostriamo la bandiera della pace, lavoriamo tutti per la guerra, volenti o nolenti siamo tutti coinvolti.
Il mondo della comunicazione si conferma come decisivo strumento di propaganda del meccanismo della guerra, un immenso “carosello”, un grande “spot” per la chiamata alle “armi”, alla totale partecipazione della società alla guerra: abituare all’idea sembra essere lo spirito guida dei media. Così siamo arrivati alla propaganda del crimine confermata dagli sproloqui di alcuni nostri governanti e giornalisti: «Nella Seconda Guerra Mondiale è stato necessario spianare Dresda per sconfiggere definitivamente il nazismo» (13 febbraio 1945 in una notte di bombardamenti morirono 135 mila persone) o “grazie alle due bombe atomiche è finita la guerra” (il 6 agosto 1945 a causa delle due esplosioni ci furono 210.000 morti e 150.000 feriti).
Il crimine e l’ipocrisia diventano sovrani. Ed eccoci alla propagandata guerra di civiltà. Anche a sinistra, molti di quelli che irridevano e biasimavano i teorici dello scontro di civiltà ora si conformano discretamente e in taluni sciagurati casi aderiscono apertamente a questo tipo di infame volgarità. Incitano e chiamano allo schieramento, costruiscono le più ingannevoli opposizioni: da una parte le democrazie dell’occidente e dall’altra le varie dittature. Da una parte la civiltà e dall’altra la barbarie, da una parte gli assaliti e dall’altra gli assalitori. Le storie dei popoli e le contraddizioni aperte dal sistema degli Stati /capitale vengono spezzate, revisionate e ognuno prende la parte che fa comodo alla propria propaganda.
Le retoriche costruite intorno allo scontro di civiltà nascondono l’oggetto del conflitto: il mondo degli Stati va in guerra attanagliato dalla crisi del suo modo di produzione e di accumulazione. Ci si scanna e si porta il mondo alla scanno per stabilire quale cordata di Stati/capitale egemonizzerà il sistema economico mondiale.
Chi ne paga e pagherà le conseguenze sono e saranno i popoli di tutto il mondo.
Costruire il rifiuto
Costruire un grande, diffuso, organizzato fronte del rifiuto della LORO guerra, dei LORO schieramenti, dei LORO interessi, riteniamo sia oggi il compito delle insorgenze sociali che si muovono per trasformare in senso anticapitalista il contesto sociale in cui vivono.
Fermare la guerra significa disfarsi, liberarsi da chi la genera, significa sottrarsi dal dominio degli Stati/capitale.
Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese siamo e saremo solidali con la causa dei popoli che si muovono per l’indipendenza e l’autodeterminazione contro tutte le forme di colonialismo e neocolonialismo. Riteniamo tuttavia sia un fatale errore pensare autodeterminazione e indipendenza nella forma di un nuovo Stato. Non è questa la via che risolve le radicali contraddizioni che si generano necessariamente nel sistema degli Stati/Capitale. L’unico modo per sottrarsi alla catastrofe della guerra è la lotta per la demolizione degli Stati nazionali territoriali, sottrarsi alle loro logiche, riprendersi i territori seguendo il principio dell’autodeterminazione e dell’autogoverno delle comunità territoriali.
Contro le guerre degli Stati/Capitale occorre organizzare l’indipendenza dei territori.