Picciotti del Sette e Mezzo.
Chi erano i “picciotti” del Sette e Mezzo? Che stavano a farci, tra il 15 e il 21 settembre del 1866, nei paesi del palermitano in subbuglio, o in agguato sulle carrozzabili dove transitava la gendarmeria e l’esercito, o nelle piazze di Palermo attraversate da nuovo slancio emancipatore? Non avremmo dovuto trovare quei “picciotti” sulla sponda opposta, ad appoggiare i carabinieri e lo stato d’assedio, ad applaudire la carneficina del Generale Cadorna? La presenza dei “picciotti” in quella insurrezione portava allo scoperto la delusione per le promesse mancate all’indomani dell’annessione allo Stato sabaudo. A distanza di pochi anni la Sicilia si ritrovava schiava di un potere statale e coloniale, assoggettata economicamente, militarmente, culturalmente.
La presenza dei “picciotti” sulle barricate, dentro le caserme e le prefetture, sotto le prigioni di Stato, nei comitati rivoluzionari, chiarisce e spiega le tonalità secessionistiche assunte dall’insurrezione del Sette e Mezzo. Lo spirito repubblicano e municipalista, le radicate istanze di autonomia comunale, trovavano nell’isola, nel sud del sud, un contesto più favorevole che nel resto d’Italia. La Sicilia, stanca delle misere condizioni in cui era precipitata, provava a dare nuova concretezza alle idee risorgimentali di libertà e indipendenza. Quelle idee, che si erano già concretizzate nel 1849 durante la breve vita della Repubblica Romana e che erano state sacrificate ai voleri accentratori dello Stato sabaudo e del governo Cavour, in Sicilia non si erano dimenticate. Alla libertà e all’indipendenza dagli oppressori miravano certamente i “picciotti” del Sette e Mezzo; contro una così pericolosa deriva si accanì la repressione, i tribunali militari, gli infamanti giornali del tempo che descrivevano i “picciotti” come “plebaglia incivile”, “selvaggi assetati di sangue”, “mafiosi”.
Quando si parla di “picciotti”, noi pensiamo ai garibaldini, ai combattenti anti-borbonici che avevano costruito l’Italia. Pensiamo a quanti si erano battuti contro l’arroganza e la prepotenza della monarchia, contro chi negava loro le terre, la giustizia sociale, l’equità. Diverso è il contesto nel quale si svolse il Sette e Mezzo, sebbene identica fosse la spinta alla liberazione. Non c’è omonimia tra le due forze sociali e politiche; c’è identità, ideale e molto spesso anche fisica. I valori risorgimentali, prima di tutti quello dell’indipendenza, erano rimasti lettera morta ma dalla mente dei “picciotti” siciliani non si erano mai cancellati.
È quanto dimostra la storia di Turi Miceli, che spiega le ragioni che avevano indotto il brigante di Monreale a rivolgere le armi contro coloro che sei anni prima gli erano apparsi come liberatori. Nel 1860 Turi aveva guidato, in camicia rossa, numerosi assalti alle forze borboniche asserragliate nelle caserme di Palermo. Quello stesso Miceli nel 1866, a fronte dei risvolti socialmente ed economicamente negativi dell’annessione, si era messo alla testa dei “picciotti” di Monreale, a tentare ancora la strada della liberazione e della repubblica. Tentativo che non riuscì a portare a compimento, essendo caduto nelle prime fasi dell’insurrezione, ucciso durante un assalto al carcere della Vicaria per liberare, insieme agli altri, il “garibaldino antipiemontese” Giuseppe Badia – in galera con l’accusa di “mafioso” lanciatagli dal tribunale militare. Badia e Miceli si erano formati durante le battaglie del ’48, al fianco dell’indipendentista rivoluzionario Giovanni Corrao, un extraparlamentare ante litteram di stretta osservanza socialista, ucciso misteriosamente nell’agosto del 1863. Dopo quasi un ventennio di duro scontro, dopo anni di arresti e di angherie, i “picciotti” mai avrebbero accettato «di aver fatto la rivoluzione solo per cambiare di tirannide», come scriveva Corrao.
Il popolo di contadini, mezzadri, giornalieri, artigiani si batteva insieme ai “picciotti” per trasformare l’isola, liberarla, riappropriarsene. Purtroppo, non erano in buona compagnia: molti conti, duchi e baroni li blandivano, spinti dalle difficoltà in cui si trovava la loro attività agraria, manifatturiera e commerciale. Per questo incitavano alla rivolta, si infiltravano nei comitati insurrezionali, si facevano portavoce delle istanze popolari. A fianco degli insorti si schierò anche il grosso del clero siciliano a cui lo Stato, con la “legge Siccardi”, aveva sottratto antichi privilegi. Le diocesi e gli ordini ecclesiastici avevano perduto la tradizionale autonomia patrimoniale; le confraternite e le parrocchie si erano impoverite. I beni e le ricchezze requisite finivano poi per riempire le casse vuote dell’erario. Anche i preti avevano molto da guadagnare dai “picciotti”; proteggendoli nei monasteri e nelle chiese essi potevano rivendicare con più forza beni e prerogative. La pluralità di soggetti sociali direttamente o indirettamente coinvolti nel Sette e Mezzo si traduceva in molteplicità di prospettive: aristocratiche e mazziniane, religiose e socialiste, indipendentiste e stataliste. Sebbene fosse la più ascoltata, la voce dei “picciotti” veniva smorzata dai paroloni di nobili e prelati.
Il Sette e Mezzo ha avuto, ahinoi, un amarissimo epilogo: l’esaltazione dei primi giorni, l’euforia per aver ripreso in mano i destini della Sicilia, si sono dovute arrestare di fronte allo sfaldamento politico, alle fughe vigliacche, ai tradimenti e alla delazione. Purtroppo, l’interclassismo incontrollato, la varietà dei fini e delle voci, sebbene avessero favorito l’insurrezione diffusa e combinata nelle campagne e in città, finivano col dimostrarsi il principale ostacolo alla vittoria finale. Per non avere imposto il riconoscimento che certamente spettava loro, i “picciotti” sono andati incontro alla sconfitta, crudele più di quanto potessero mai aspettarsi, tragica sul piano fisico e deprimente su quello morale. A dispetto dell’insuccesso, però, i “picciotti” erano riusciti a svelare la fragilità dello Stato, dimostrando quanto rapidamente la tenacia di un popolo può rovesciare le istituzioni, mutare i rapporti di forza tra le classi.
Riportare alla ribalta quelle straordinarie giornate non deve pertanto intendersi come vano esercizio storico; quelle giornate, al contrario, sono lì ad indicare a tutti i “picciotti” bersagli e traguardi. Del Sette e Mezzo soltanto questo rimane… e non è poco!