Lentini: Primo maggio 2017 – Per l’indipendenza dei territori.
C’è stato un tempo in cui gli uomini e le donne della nostra terra festeggiavano questo giorno. Fossero uomini e donne delle officine o dei campi, avessero una bottega, un negozio, un commercio, una professione – aspettavano questo giorno, lo preparavano. Mettevano il vestito buono e sfilavano nelle piazze, nelle strade, dietro le loro bandiere, le bandiere rosse del lavoro. Mettevano il vestito alla buona e andavano in campagna, dove cantavano le canzoni del lavoro o suonavano una qualche musica e dove ballavano. In città o in campagna, quegli uomini e quelle donne quel giorno si sentivano forti. Avevano lavorato, avevano lottato, avevano conquistato dei diritti, avevano perso ma si erano rialzati – qualunque fosse stato il loro percorso quell’anno, sapevano chi fossero, da dove venivano, dove andavano. Bastava che guardassero le loro mani, bastava che si guardassero negli occhi.
Era la comunità del lavoro che avanzava. Chiedeva diritti, chiedeva condizioni dignitose sul lavoro, chiedeva salari migliori. Chiedeva futuro. Erano loro, il futuro. Erano loro, la speranza. Quel giorno, il Primo maggio, era la loro festa.
C’è stato un tempo, dopo, in cui tutto questo si è lentamente affievolito – le sfilate sono diventate rituali, i comizi erano solo parole di prammatica, le bandiere restavano arrotolate. Non si cantava e non si ballava. Non c’erano più i luoghi della festa. C’erano ancora diritti da conquistare, c’erano ancora salari da aumentare, c’erano ancora condizioni dignitose sul lavoro da chiedere, queste cose ci sono sempre. Ma la comunità del lavoro si era indebolita, smarrita, ammutolita. Il lavoro si è fatto debole, smarrito, muto.
È dai territori che dobbiamo ricostruire la comunità del lavoro. Dai nostri luoghi. Perché ovunque il capitale ha messo a profitto i nostri luoghi, è qui che ora si accumula la ricchezza, che ora si manifesta il potere. La comunità del lavoro è ora qui, nei nostri luoghi – in chi il lavoro ce l’ha e chi in non ce l’ha, in chi è costretto a emigrare e chi rimane per resistere, nei giovani che cercano un’occupazione e negli adulti che perdono un’occupazione, in chi lotta per difendere il proprio territorio dagli scempi e dalla speculazione, in chi non sa come arrivare alla fine del mese, in chi non sa come associarsi, in chi sperimenta tentativi di organizzarsi. Il lavoro, il territorio è dove c’è una comunità di uomini e donne che lotta.
Il territorio – le nostre città, i nostri paesi, le nostre piazze, le nostre strade, la nostra terra – è il luogo dei conflitti. Senza conflitto non c’è libertà, non ci sono diritti. Senza resistenza, non c’è comunità. È nella resistenza che sappiamo chi siamo, che possiamo guardare le nostre mani e guardarci negli occhi.
I nostri luoghi e la nostra terra continueranno a vivere solo per la nostra cura, per il nostro affetto, per il nostro lavoro. Al capitale non interessano i luoghi, la loro storia, la loro cultura, il loro significato – le nascite, le feste, i lutti, i riti, la memoria. Per il capitale un luogo vale l’altro, interessa solo se può metterci una discarica, se può installare una base militare, se può fare un’opera inutile dove sprecare denaro: il capitale è senza radici e senza memoria. Mette solo cartelli stradali, divieto di accesso, divieto di sosta, divieto di avvicinarsi, vuole le mani libere, senza che si vedano i suoi scempi.
Dobbiamo riconquistare i nostri territori. Riconquistarli alla loro storia, alla loro cultura, al loro significato. La nostra terra è la nostra casa, la nostra terra è la storia del lavoro, e il capitale è una truppa di occupazione.
Il Primo maggio 2017 sfileremo di nuovo dietro le insegne del lavoro e dell’indipendenza, srotoleremo le nostre bandiere e canteremo le nostre canzoni e balleremo. Lotteremo.
Siamo di nuovo in cammino, sulla strada di sempre: libertà, indipendenza.