Quando la matematica del debito pubblico non fa l’economia. Almeno in Sicilia

Quando la matematica del debito pubblico non fa l’economia. Almeno in Sicilia

lanfranco caminiti

Secondo i dati della Banca d’Italia (Supplementi al Bollettino Statistico, Debito delle Amministrazioni locali, 31 ottobre 2015, numero 57) il debito pubblico (tra consolidato e non consolidato) delle Amministrazioni e degli Enti in Sicilia ammonta a una cifra superiore ai 20 miliardi di euro. Un quadro peggiorativo rispetto quello tracciato nel passaggio di consegne tra il governo Lombardo e quello Crocetta in una Relazione dell’Assessorato all’Economia, che indicava in 18 miliardi la situazione debitoria degli enti pubblici, aggiungendo al debito della Regione Sicilia quello dei Comuni (6,5 miliardi), quello delle Province (1 miliardo), degli Iacp, Consorzi Asi, Consorzi Bonifica (1 miliardo), delle Aziende sanitarie provinciali (2,5 miliardi).

Il rapporto delle regioni tra debito pubblico e Pil è superiore al 130 percento il che crea uno squilibrio per l’intero sistema per la forte tassazione resa necessaria per supportare la spesa pubblica e ripagare gli interessi sul debito. Tuttavia Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Marche e Piemonte hanno un rapporto debito/pil intorno all’80 percento; di contro il sud ha un debito/pil del 230 percento con punte di oltre il 300 percento (Calabria). Nello specifico, la Lombardia ha un rapporto debito/Pil del 71,9 percento, l’Emilia-Romagna del 73,3 percento, mentre la Sicilia del 256,3 percento.

Secondo i dati delle sezioni regionali della Corte dei Conti, che hanno passato al microscopio i bilanci del 2014 dopo il decreto del 2012 che ha aperto le porte dei bilanci regionali, che prima non avevano nemmeno l’obbligo di farsi controllare da revisori dei conti professionisti, il totale del disavanzo delle regioni è di circa 33 miliardi di euro. In questa voce la fa da padrone la voce “Sanità”. Per dire, nel Lazio, a fronte di un debito complessivo di 19.842.045.000, la voce “sanità” pesa per 11.280.153.000 (quasi il 57 percento); in Sicilia, a fronte di un debito complessivo di 6.704.013.000 la voce “sanità” pesa per 2.351.926.000 (ovvero il 35 percento).

Il disavanzo in rosso per abitante vede la Sicilia al terzo posto delle Regioni più indebitate: al primo, il Lazio con un debito per abitante di 1854,94 €; al secondo, il Piemonte – che pure è una regione virtuosa nel rapporto debito/Pil – con un debito per abitante di 1640,59 € (pesano ancora gli sprechi dell’amministrazione Bresso, centrosinistra, e di quella Cota, leghista-centrodestra); al terzo, la Sicilia con un debito per abitante di 1216,11 €. È questa la cifra che grava su ciascuno di noi.

Più o meno, questi sono i numeri. Più o meno, perché le nuove regole hanno centinaia di pagine di principi contabili e non è facile districarvisi, anche per addetti ai lavori. Per capirci, riguardo la Sicilia: a fine 2014, il risultato prima degli accertamenti, era positivo per 6,4 miliardi, e dopo la pulizia dei conti dalle voci da spostare o cancellare, si è trasformato in un rosso da 1,9 miliardi che a fine 2015, calcolate anche le somme vincolate o accantonate per effetto delle nuove regole, è sfociato in un disavanzo da poco meno di 7 miliardi.

In queste condizioni, un qualunque piano di investimenti è impensabile: il problema è sempre quello di ripagare il debito. E di ricorrere a prestiti (la Regione Sicilia è indebitata con le banche nazionali, tra cui Mps, con la Cassa Depositi e Prestiti, e con banche “straniere” come Nomura e Merril Lynch, quella dei “derivati killer”) per ripagare il debito, accrescendo il debito, benché lo si spalmi su più anni.

La Corte ha riconosciuto una certa “virtuosità” alla Regione Sicilia che nel Documento di programmazione economica presentato ha ridotto le spese correnti (in genere accade per il blocco del turnover nella Pubblica amministrazione, per i tagli ai servizi, a esempio). Va detto però – come si evince dall’Allegato n.5/A, Bilancio di previsione 2016-2018, Riepilogo generale delle spese per Titoli) che il Disavanzo di amministrazione per il 2017 e 2018 è invece in crescita benché il Totale generale della spesa diminuisca. Com’è possibile? È possibile perché si riducono drasticamente le Spese in Conto capitale: esse passano da 5 miliardi 185.665.794 € del 2015 a 2 miliardi 669.034.274 € per il 2016, a 844 milioni 604.099 € per il 2017, a 651 milioni 890.012 € per il 2018. La Regione Sicilia ha deciso di non investire più. Ma se non investi più, come fai a creare sviluppo e crescita? Puoi solo stabilizzare la povertà.

La Sicilia è tra le regioni più povere d’Italia, secondo i dati Ocse e Eurostat per il 2015. Messa peggio della Sicilia (ex aequo con la Puglia) c’è solo la Calabria. Fatto 100 il Pil prodotto nazionalmente, la più ricca è la Lombardia (134 percento), seguita da Valle d’Aosta (132 percento), provincia autonoma di Trento (127 percento), Emilia Romagna (120 percento), Lazio (118 percento), Liguria (112 percento), Veneto 111 percento), Friuli Venezia Giulia e Toscana (107 percento), Piemonte (106 percento), Marche (93 percento) e Umbria (90 percento). Tra le più povere, dopo la Calabria (57 percento), ci sono Sicilia e Puglia (61 percento), Campania (63 percento), Basilicata e Sardegna (69 percento), Molise (70 percento) e Abruzzo (85 percento). Confrontato con i dati del 2012-2013, il Pil pro-capite delle regioni del Nord Italia è rimasto sostanzialmente stabile (restando di circa un quarto superiore alla media Ue), mentre è calato significativamente nel Sud e nelle isole.

Secondo i dati del rapporto Ocse sulle diseguaglianze, l’1 percento più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3 percento della ricchezza nazionale netta (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40 percento più povero, che detiene solo il 4,9 percento. La ricchezza in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20 percento più ricco (primo quintile) detiene infatti il 61,6 percento della ricchezza, e il 20 percento appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9 percento. Il restante 60 percento si deve accontentare del 17,4 percento della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4 percento per il 20 percento più povero. Il 5 percento più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1 percento della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1 percento più ricco.

Niente fa pensare che in Sicilia la distribuzione diseguale della ricchezza sia diversa. È a partire da questa considerazione che si può rivedere quel primo dato grezzo per cui ciascun siciliano ha un debito di 1216,11 €. A pensarci, forse 1216,11 € non sono poi una cifra così esosa. Però: 1) è un debito praticamente “a vita”, perché lo spalmamento dei debiti della Regione e degli Enti ha un ciclo di venti-trent’anni: per venti, trent’anni ciascuno di noi dovrà “pagare” 1216,11 € l’anno (mentre intanto si accendono nuovi prestiti e quindi nuovi debiti); 2) è vero, il debito è soggetto annualmente anche a contrazioni per circostanze favorevoli (calo del tasso di interessi, a esempio), ma soprattutto al taglio delle spese, da cui ricavare somme da destinare al pagamento dei debiti: ora, se per ipotesi si tagliano 1216,11 l’anno di spese correnti (sanità, scuola, assistenza, rifiuti) il cittadino indebitato ne avrà di certo un sollievo, però una cosa sarà l’effetto per il primo e il secondo quintile detentori di ricchezza, e una cosa per il restante sessanta percento, e figurarsi per il venti percento più povero. Risultato? Niente scuola e sanità pubblica, niente assistenza, degrado dei quartieri a livelli inimmaginabili.

In realtà, è quanto già succede. Il dato del Pil è un dato relativo, esso andrebbe sempre comparato con quanto viene restituito in servizi. Se tutte le regioni fossero degli stati indipendenti il valore sintetico potrebbe anche essere considerato assoluto. Tuttavia in uno stato centralista come l’Italia, diventa rilevante calcolare anche il residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto viene prelevato in tasse e quanto viene restituito in servizi pubblici. Vediamo questi dati, su base Istat 2012 e 2014 (fonte «Sole 24ore»): il Pil della Lombardia, pro capite, è di 33.272 €, e quello della Sicilia è di 16.244 €, già la metà; ma se calcoliamo anche il residuo fiscale, i dati si modificano così: Lombardia, Pil pro capite: 39.060 € (va cioè aggiunto al Pil il residuo fiscale, quanto viene restituito in servizi, di 5.788 €; Sicilia, Pil pro capite: 13.037 € (va cioè sottratta la differenza tra carico fiscale e servizi). La forbice tra nord e sud, tra Lombardia e Sicilia si dilata ancora di più.

È guardando le cose in quest’ottica che si può capire il comunicato-stampa dell’ABI (Associazione bancaria italiana) che «a conferma della solidità del settore e della propensione al risparmio degli italiani» comunica l’aumento dei depositi, a fine giugno 2016, di quasi 45 miliardi di euro rispetto all’anno precedente (su base annua, +3,4 percento), segnando un aumento in valore assoluto su base annua di quasi 44 miliardi di euro. L’ammontare dei depositi raggiunge a fine giugno 2016 un livello di 1.321,3 miliardi (mentre si conferma la diminuzione, sempre su base annua, della raccolta a medio e lungo termine, cioè tramite obbligazioni: la variazione annua delle obbligazioni è risultata pari a -15,1 percento). L’ABI rileva che la dinamica crescente dei depositi bancari è riscontrabile in tutte le regioni italiane. I depositi delle famiglie registrano un aumento del 3,6 percento su base annua, e gli incrementi più sostenuti si registrano in Trentino Alto Adige (+8,5 percento), in Veneto (+5,3 percento), in Lombardia (+5,2 percento), in Emilia Romagna (+4,4 percento), in Friuli Venezia Giulia (+3,9 percento) e +3,9 percento in Piemonte e +3,6 percento in Toscana. Segni positivi anche in tutte le regionali meridionali: con punte del +3 percento in Puglia e del 2,6 percento in Basilicata. In Sicilia si registra un aumento dei depositi bancari dell’1,1 percento.

Chi cazzo ha messo l’1,1 per cento di più in banca in Sicilia (e nel resto d’Italia), incrementando il gruzzolo?
Secondo il Bollettino statistico III trimestre 2016 della Banca d’Italia (tabella B6.2, Depositi e Risparmio postale), la raccolta tra Banche e Bancoposta in Sicilia vede depositi per 48 miliardi e 39 milioni di euro. Dovrebbe essere una buona notizia: ciascun siciliano ha un deposito (tra banche e poste) di 9.496 €. In fin dei conti possiamo anche tirare un sospiro di sollievo: quel maledetto debito che pesa su ciascuno di noi di 1216,11 € l’anno possiamo affrontarlo serenamente. Solo che qui la teoria del pollo di Trilussa torna convincente: «da li conti che se fanno / seconno le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno: / e, se nun entra nelle spese tue, / t’entra ne la statistica lo stesso / perch’è c’è un antro che ne magna due». Mentre è sicuro che il pollo del debito di 1216,11 € l’anno ce lo cucchiamo ciascuno, non è altrettanto sicuro che il pollo dei 9.496 € di depositi ce lo teniamo stretto ciascuno. Qualcuno s’è fottuto tutti i miei depositi.

Il bazooka del signor Pizzino è una pistola ad acqua.

È stato Henry Paulson, “Hank”, a inventare la teoria del bazooka. Hank è stato segretario al Tesoro americano dal 2006 al 2009, nel pieno dell’esplosione della crisi finanziaria. Quando cominciarono a venire giù le grandi compagnie finanziarie e la gente usciva dai grattacieli del denaro con gli scatoloni pieni di cose raccattate alla scrivania dopo il loro licenziamento e si formavano le file agli sportelli, e poi crollò persino Lehman Brothers, Paulson si rese conto che non si poteva più andare avanti con “i metodi convenzionali”. E fu allora che impugnò il bazooka: avrebbe stampato dollari senza risparmio. È, in economia, la teoria del Quantitative easing: immissione di liquidità nel mercato finanziario per fronteggiare il crollo di valore e la fuga degli investimenti. Il Tesoro stampa obbligazioni che vende alle Banche centrali che hanno stampato moneta, ma può anche comprare titoli tossici o crediti in sofferenza delle banche, cui presta il denaro praticamente a costo zero. Ben Bernanke, che era a capo della Fed, la Federal Reserve, concordò con Paulson questa politica. E la proseguì. E così ha fatto Janet Yellen, che è succeduta a Bernanke, anche se adesso ha iniziato a alzare lievemente i tassi. E anche Mario Draghi, a capo della Banca centrale europea, nonostante l’opposizione della Germania, ha praticato questa politica – resta famosa la sua dichiarazione dell’agosto 2012 in piena turbolenza di spread e speculazioni sulle nazioni più deboli, tra cui l’Italia, che la Bce avrebbe fatto «whatever it takes», qualunque cosa fosse stata necessaria. Non era un’esplicita citazione del bazooka, ma ci andava molto vicino.

Dopo cotanti – Paulson, Bernanke, Yellen, Draghi – anche il signor Pizzino, buon ultimo, modestamente, si è reso conto che i metodi convenzionali non bastano più per fronteggiare il debito pubblico siciliano. Così, ha inventato il “grano”, moneta da affiancare all’euro. “Progetto Sicilia: un sogno fatto in Sicilia”, si chiama così la cosa. E ci ha fatto i suoi diagrammi e le sue slide per spiegare come dovrebbero funzionare le cose.

Poggiando sulla forza dell’articolo 41 dello Statuto siciliano (che recita così: 1. Il Governo della Regione ha facoltà di emettere prestiti interni), Pizzino propone che FinSicilia stampi obbligazioni regionali (BOR) per 6 miliardi l’anno per 5 anni fino a raggiungere i 30 miliardi; ogni anno, la Regione emetterebbe 1 milione 200mila BOR del valore di 5mila € ciascuno per un totale di 6 miliardi. 6 miliardi per cinque anni, uguale 30 miliardi. Questi 30 miliardi andrebbero a aggiungersi a 20 miliardi dell’Unione europea (che sono sostanzialmente bloccati per mancanza di co-finanziamento) per un totale di 50 miliardi in cinque anni. In realtà sarebbero due miliardi l’anno europei per cinque anni, cioè dieci miliardi, ma diventerebbero venti perché sarebbero cofinanziati. Una bella cifretta, no?
Chi dovrebbe comprare i BOR da 5mila euro ciascuno? Ma i siciliani, naturalmente. Perché? Perché Pizzino promette di restituirgliene, in sette anni, il doppio (un tasso che neppure Bernard Madoff, il re della truffa americana con lo schema Ponzi si sognava di ventilare ai suoi gonzi clienti). E peraltro sarebbero garantiti. Da cosa? Dal patrimonio immobiliare della Regione (i beni immobili sono stimati in un valore di 6 miliardi) e dei Comuni (un valore di altri 4 miliardi) per un totale di dieci miliardi. Ma già qui le cifre non tornano.

Succederebbe perciò questo: tu mi dai cinquemila euro e io intanto ti do diecimila “grani” (una carta di credito, in cui viene fissato un valore convenzionale di 1 euro = 2 grani). Che ci fai tu con questi “grani”? Ma li spendi, naturalmente. E dove? Presso tutta una serie di aziende convenzionate che li accettano anche perché possono poi pagarci le tasse e i tributi, quindi restituirli alla Regione. Li puoi spendere per fare la spesa. Puoi andare nelle “putie” che accettano i “grani” e comprarti i pomodori siciliani e il vino siciliano e la pasta siciliana. E così, non solo si incrementa il commercio (Pizzino ha calcolato quanti sarebbero i lavoratori delle putie, che potrebbero essere pure quelli in Cassa integrazione, così la Regione risparmia) ma anche la produzione (Pizzino ha calcolato quanto crescerebbe la produzione e quindi l’occupazione) e la distribuzione e il logistico (Pizzino ha calcolato quanta movimentazione crescerebbe per autotrasportatori e piattaforme). E poi, visto che tutto gira, si pagherebbero tranquillamente le tasse – aumentando così il gettito fiscale per la Regione – e diminuirebbero i trasferimenti regionali alle aziende in crisi (altri soldi che la Regione risparmia). In breve, con i “grani” si creerebbe un’economia siciliana virtuosa che abbatterebbe il debito pubblico in men che non si dica. E naturalmente avanzerebbero i soldi per restituire, raddoppiati, gli investimenti dei risparmiatori.

«Sono numeri questi», urla Pizzino. «È matematica, questa», strepita Pizzino. Convinto della incontrovertibilità dei numeri e della matematica, e quindi della bontà del suo “sogno fatto in Sicilia”, il signor Pizzino non riesce a rendersi conto del perché la Regione non dovrebbe fare proprio questo bel progetto – «Crocetta lo accetterà, sono certo», assicura Pizzino. E inonda di documentazione ogni assessorato alla Regione – «Anche ai portieri l’ho spedito», geme Pizzino – o si appresta a munirsi di banchetto e stazionare davanti gli uffici regionali finché non gli daranno ascolto. «È tutto a costo zero!», si sbraccia Pizzino.

Ora, io di principio non ho nulla in contrario a una doppia moneta. C’è stato un momento storico abbastanza recente in cui l’Italia ha vissuto una doppia (e tripla e quadrupla) circolazione monetaria. Nel 1943, in preparazione dello sbarco in Sicilia, gli Alleati costituirono l’AMGOT (Allied Government Occupied Territory). Tra le varie «divisioni» a cui spettava governare il territorio, fu istituita quella finanziaria, la Financial. Le autorità alleate sapevano che nell’isola ridotta allo stremo anche le banche avevano esaurito la scorta di banconote. Fu perciò istituita una banca militare, l’Allied Military Financial Agency (AMFA) con il compito di emettere cartamoneta destinata alle spese correnti e al soldo dei militari. In tal modo, prima ancora dello sbarco, incominciarono a circolare dollari con il sigillo giallo, per distinguerli da quelli ufficiali con il sigillo blu. C’era pure uno scambio ufficiale con la lira: 100 il dollaro. Al mercato libero, il dollaro raddoppiava. Verso la fine di giugno si aggiunsero le Allied military liras, che sarebbero diventate le «AM-lire» e cominciarono a circolare sin dallo sbarco in luglio. Le Allied Military Line Currency della serie 1943 furono stampate negli Usa da due differenti tipografie, la Bureau of Engraving and Printing (BEP) e la Forbes Lithograph Corporation (FLC). La differenza è valida solo per l’emissione del 1943. I biglietti si differenziano perché quelli della BEP sono privi di indicazioni dello stampatore, mentre quelli della FLC hanno una piccola «f» nel ricciolo inferiore destro sopra al valore. Una enorme liquidità venne immessa sul mercato con effetti inflattivi. I tagli erano da 1, 2, 5, 10, 50, 100, 500 e 1.000. Sul retro, ogni biglietto pubblicizzava le quattro libertà americane: Freedom of Speech (libertà di parola), of Religion (di fede), from Want (dal bisogno), from Fear (dalla paura). Contemporaneamente alle AM-lire, gli inglesi fecero un analogo tentativo di emettere moneta di occupazione, pence, scellino e sterlina della British Military Authority, che però ebbero scarsa fortuna per la difficoltà che gli italiani incontrano a conteggiare una moneta suddivisa su base non decimale. I prezzi si infiammarono. A ridosso dello sbarco le banconote furono poi stampate in Tunisia, ma con la conquista di Palermo le autorità statunitensi ebbero a disposizione il Banco di Sicilia, del quale già nei preparativi dell’invasione veniva prefigurato l’impiego come Istituto di emissione. Trasformato in Banca centrale, il Banco di Sicilia guadagnò un potere enorme. Le AM-lire passarono per tutte le mani degli italiani fra il 1943 e il ’45. Quanto meno, il Sud ne fu invaso [Malaparte ne La pelle, scrive che amministravano «i cuori e i corpi»] e progressivamente i territori «liberati», mentre nella Repubblica Sociale continuavano a circolare le lire. Nel 1944 intanto la Banca d’Italia stampò la cosiddetta «serie della Luogotenenza», in cui c’erano anche i biglietti da 500 e 1.000 lire, mai messi in circolazione. Le AM-lire furono dichiarate fuori corso soltanto nel 1950, con la legge del 5 gennaio n. 3 del ministro del Tesoro. [Alfio Caruso, Arrivano i nostri, 2004, Longanesi].

Ecco, il “grano” non creerebbe inflazione? Con quello scambio convenzionale di 1 a 2, tipo il cambio che Kohl effettuò tra il marco dell’Ovest e la moneta dell’Est in una notte dopo la caduta del Muro, non ci sarebbe questo rischio? Per la verità, non ho neanche nulla di principio contro l’inflazione (farla crescere lievemente fino al 2 percento, è peraltro uno degli obiettivi dichiarati del Quantitative easing, ancora non raggiunto). Ma non vorrei ritrovarmi in una situazione tipo Repubblica di Weimar, quando ci volevano tre miliardi di marchi per comprare un chilo di pane e la gente veniva pagata giorno per giorno e spendeva subito il denaro perché nello spazio di ore i prezzi lievitavano. Quanti milioni di “grani” ci vorranno per comprare un chilo di pomodori di Pachino in una delle putie del signor Pizzino? Manderà in giro (altra occupazione, signor Pizzino, da conteggiare!) delegati dell’Annona a controllare i prezzi delle putie?
Ma la vera questione è la trappola della liquidità. Fu Keynes – che di certo è nella biblioteca di casa del signor Pizzino – a parlarne: la liquidity trap è quella situazione in cui nessuna politica monetaria (e il “grano”, e la sua stampa e circolazione collaterale, lo sarebbero) riesce a provocare alcuna influenza sulla domanda e quindi sull’economia. L’offerta di moneta a tassi di interesse bassissimi dovrebbe indurre le aziende a indebitarsi e investire e spingere le famiglie al consumo, anziché al risparmio: se prendi denaro praticamente a gratis, perché non farlo? Solo che accade – è accaduto sinora – che quando i tassi di interesse sono prossimi allo zero o a zero (così, a esempio, era negli Stati uniti fino adesso) agire sulla leva della liquidità non provoca automaticamente investimenti e consumo, soprattutto se questa liquidità resta intrappolata nelle banche che non forniscono credito ma continuano a risanare i propri debiti, per l’avidità di speculazioni insensate, e le proprie sofferenze (che sono cresciute in maniera abnorme). Il vero motore dei consumi delle famiglie è il sentimento di fiducia: aspettarsi che la propria situazione lavorativa migliori; aspettarsi che i propri figli e nipoti abbiano un destino lavorativo migliore del proprio e una mobilità verso l’alto; aspettarsi che la tua vecchiaia sia serena e che tu possa contare su una pensione decente e finalmente curarti l’orto dietro la casa che decidi di comprare; aspettarsi che intorno a te la condizione economica sia positiva. Quando, quando è stata l’ultima volta che c’era questo sentire sociale? Che il futuro sembrava possibile?

Se ti rimane qualcosa alla fine del mese, oggi preferisci tenerlo alla posta o alla banca: è come metterlo sotto il materasso, né più né meno (ricordate quella cifra, citata prima, dell’aumento dei depositi?) Ma questo è il dato: le imprese non investono, le istituzioni non investono, le famiglie non investono (quelle che potrebbero, le altre devono ridurre persino i consumi per tirare fino a fine mese). Perché “questa” economia fa paura, perché la paura è il sentimento sociale diffuso.
Ma rovesciare la paura, immaginare un futuro personale e comune, caro signor Pizzino, è una questione politica, non un fatto contabile o monetario. Rovesciare la paura, immaginare un futuro personale e comune, caro signor Pizzino, è un processo sociale, non un provvedimento amministrativo. Il debito pubblico è questione dei rapporti di forza sociali, non da registri della spesa.

La Sicilia forse un giorno stamperà i suoi “grani”, signor Pizzino, perché no? O come diavolo la vorremo chiamare, questa nuova moneta. Ma non è a mezzo dei suoi “grani” che conquisteremo l’indipendenza – che è politica e monetaria. È a mezzo dell’indipendenza – che è un processo politico, sociale e amministrativo, la fiducia nel futuro – che avremo una “moneta siciliana”.

Al seguente link è possibile leggere la risposta di Pizzino a questo articolo

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